L’unica parola che è riuscita a dire quando ha visto i soccorritori è “namastè”, cioè un flebile “ciao”. È rimasta tre giorni sotto le macerie della sua casa, crollata lo scorso sabato in seguito al forte terremoto che ha colpito Bakhtapur, una delle zone più devastate. Ha 32 anni, ma soffre dalla nascita di una grave malformazione congenita del sistema nervoso centrale, la sindrome di Dandy-Walker, che l’ha resa fin da neonata paraplegica. “Credevamo che nostra sorella fosse morta, giacché anche i nostri vicini – che possono camminare – lo sono”. La sua famiglia sabato stesso si era messa in contatto con l’esercito, spiegando la situazione, ma i militari non si sono potuti recare presso quello che rimaneva della casa di tre piani fino al giorno seguente.
La cognata e la nipote della donna hanno dormito per due notti sui sassi, accanto alle macerie, perché non volevano arrendersi al fatto che Ngawang fosse morta. Solo domenica, grazie ad alcuni giovani dell’esercito e alcuni volontari della croce rossa sono iniziate le ricerche. Poi il miracolo, dopo 72 ore di sassi tolti con le mani: spostando cumuli di macerie che la ricoprivano, sono riusciti ad estrarre dai detriti la donna ancora in vita. Uno schiaffo alla morte.
Una storia a lieto fine, in mezzo a migliaia di altre fatte di orrore, lutti, devastazioni. Quattro giorni dopo la prima devastante scossa di magnitudo 7.9 in Nepal, comincia infatti ad emergere, anche se confusamente, l’entità della catastrofe che ha colpito 8 milioni di persone, ovvero un terzo del Paese himalayano. Il bilancio ufficiale delle vittime ha superato i 5mila, ma il governo stima che i morti potrebbero salire a oltre 10mila, come ha ipotizzato il premier Sushil Koirala. Mano a mano che i soccorsi arrivano nelle valli a nord di Kathmandu, quelli più vicini all’epicentro, il quadro della tragedia si fa sempre più drammatico. E’ triste dirlo, ma il problema più grande ora non è contare i morti, bensì aiutare i vivi a non morire. Nella capitale cominciano a scarseggiare acqua in bottiglia, cibo e benzina. Soltanto in alcune aree è stata ripristinata la corrente elettrica.
A Kathmandu la pioggia torrenziale ha aggravato le già precarie condizioni delle decine di migliaia di sfollati che vivono all’addiaccio nei parchi e sui marciapiedi. Moltissimi di loro non possono tornare nelle case perché sono pericolanti, e migliaia di bambini sono a rischio ipotermia.
Si teme anche che nei prossimi giorni a Kathmandu arrivi un esodo di profughi dalle zone terremotate. Decine di migliaia di persone hanno lasciato i villaggi con trasporti pubblici o con i propri mezzi. I giornali stamane pubblicavano foto drammatiche di persone che prendevano d’assalto i pochi autobus per fuggire dai villaggi ormai ‘invivibili’ per i cadaveri in putrefazione sotto le macerie.
I soccorsi internazionali si sono messi in moto. Oltre alla Cina, anche l’India, Regno Unito e Usa hanno inviato generi di prima necessità, medicinali e anche elicotteri per trasportare i feriti. L’India ha inviato elicotteri, l’Italia contribuisce con Vigili del Fuoco, guardie alpine e Croce rossa.
Alla tragedia del sisma va aggiunta anche quella delle valanghe che hanno travolto circa 150 alpinisti che si trovavano tra il campo base dell’Everest e il campo 2 e oltre 120 turisti che stavano facendo un trekking in direzione di Pangoche. Per ora le vittime confermate sono 18, ma soltanto nei prossimi giorni, quando i superstiti convergeranno a Lukla (dove c’è l’aeroporto), si potrà finalmente avere un quadro chiaro di cosa è successo sul ‘tetto del mondo’, dove per il secondo anno consecutivo non ci saranno salite alla vetta.
Infine gli italiani. La Farnesina ha fatto sapere che finora sono stati rintracciati 375 connazionali, mentre dieci risultano ancora irreperibili. Al momento restano quattro le vittime confermate.