Il governo del Myanmar “non vuole fare chiarezza sul genocidio dei Rohingya e deve essere deferito alla Corte penale internazionale”. E' durissima l'accusa rivolta all'ex Birmania da parte del relatore speciale delle Nazioni Unite, Yanghee Lee, riguardo la gestione del dramma della minoranza musulmana che popola la regione del Rakhine, perseguitata dall'esercito e costretta ad abbandonare le proprie case.
L'accusa
“Le misure limitate e insufficienti prese finora dal governo birmano dimostrano che non ha né la volontà né la capacità di svolgere un'inchiesta e intraprendere un'azione penale credibile, pronta e indipendente“, scrive l'alto funzionario Onu, a cui il governo birmano ha vietato nelle scorse settimane di entrare nel Paese perché accusato di non essere indipendente.
Perseguitati
Il dramma dei Rohingya è tutt'altro che risolto: più di 700 mila profughi vivono in campi di fortuna approntati al di là del confine, nel Bangladesh, perché fuggiti dalle violenze dell'esercito birmano e delle milizie armate buddiste. Non sfugge alla critica dell'Onu il premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, dal 2016 capo del governo birmano “de facto”, pesantemente criticata per la sua inazione nei cronti dei militari. “La situazione in Birmania, in cui sono stati commessi un genocidio, crimini di guerra e crimini contro l'umanità, richiede l'attenzione della Corte penale internazionale o di altri meccanismi di giustizia internazionale”, dice Yanghee Lee, personalità di spicco sudcoreana che è stato uno dei primi a denunciare il “genocidio” Rohingya.