E'il 7 novembre 2018 quando Leyla Güven inizia uno sciopero della fame che dura ancora oggi. Una decisione forte e coraggiosa, ma che come spesso accade quando si parla di Kurdistan rimane sotto traccia. La maggior parte dei media non dà spazio a questa vicenda che crea parecchi imbarazzi alla Comunità internazionale.
I 7mila scioperanti sparsi nel mondo
Leyla Güven è una parlamentare dell’HDP, il Partito Democratico dei Popoli, che dall’interno del panorama politico turco e in maniera legale, sostiene la causa curda. Dopo qualche settimana, per la precisione a dicembre 2018, all’iniziativa di questa donna si sono aggiunti altri 14 attivisti. Occorre precisare che lo sciopero è sempre stato utilizzato da chi chiede la creazione di uno Stato curdo indipendente, che riunisca le quattro aree in cui è attualmente diviso. Ma adesso i numeri sono impressionanti: in tutto il pianeta, secondo le stime più recenti, oltre 7mila persone non stanno più mangiando. Molti fra loro sono imprigionati nelle carceri turche, iraniane, irachene e siriane. E una decina di attivisti, da quando questa imponente manifestazione collettiva è iniziata, sono morti.
Il motivo dello sciopero
È stata chiara fin da subito Leyla Güven sul perché della protesta. “Le politiche di isolamento verso Öcalan sono imposte su un popolo intero attraverso la sua persona”. Abdullah Öcalan è il fondatore del PKK, partito dei Lavoratori del Kurdistan. Ma soprattuto il leader carismatico verso cui tutti gli attivisti e non si riconoscono. Il 71enne che impersonifica la speranza di un Kurdistan sovrano e indipendente. Il 15 febbraio 1999 è stato catturato a Nairobi in Kenya. Dopo un’iniziale condanna a morte, emessa nel giugno di quello stesso anno, per attività separatista armata; le autorità giudiziarie turche, in seguito all’abolizione della pena capitale, gli hanno inflitto l’ergastolo nel 2002. Da allora è l’unico detenuto dell’isola-prigione di Imrali. In questi due decenni di prigionia, i suoi familiari l’hanno potuto visitare soltanto in rare occasioni. L’ultima, concessa al fratello, lo scorso 12 gennaio. Öcalan, però, non ha più visto i suoi avvocati dal 27 luglio 2011.
I casi “italiani”
Nel cuore di Roma, a Testaccio, ha vissuto Erol Aydemir. Che sciopera senza sosta dal 21 marzo, giorno del capodanno curdo. Si sostiene con “acqua, 100 grammi di zucchero al giorno e sale”, ha detto ai giornalisti che l’hanno intervistato. La sua storia è paradigmatica. È arrivato in Italia nel 2015 come rifugiato politico. In Turchia ha cercato di avere una normale vita da studente: ma prima due Università lo hanno espulso, poi è stato incarcerato per due anni. Motivazione: “Mi hanno arrestato perché facevo teatro all’università, dicevano che la usavo per fare propaganda al Pkk”. Nel nostro Paese c’è anche chi, pur non essendo di origine curda, si impegna concretamente per aiutare questo popolo. E’ il caso di Clarissa Castrello che si definisce “semplice attivista” e che non si stanca mai di diffondere a più persone possibili le tante storie che conosce. Infatti sta organizzando una serie di incontri per parlare dello stallo in cui è finito il processo di unificazione curdo.
Gli eventi più recenti
L’area mediorientale è da sempre una polveriera fatta di rivendicazioni e spargimenti di sangue. Originata dalle conferenze internazionali, organizzate dalle grandi potenze nel XX secolo. E proprio in quei consessi non è mai stata presa in considerazione la possibilità di creare il Kurdistan. Nella nostra epoca, la guerra in Siria e il fallito golpe in Turchia dell’estate 2016 sono state le due circostanze che negli ultimi anni hanno fatto sparire dal dibattito mediatico, e non solo, la causa curda. Che deve fare i conti, con le nazioni di Bashar al-Assad e Recep Tayyip Erdogan, ma anche con Iran ed Iraq. Paesi in cui c’è una forte presenza di curdi, che continueranno a scioperare.