Non c'è solo un tratto di mare a separare l'Italia dalla Libia, così come non è una mera differenza etnico-linguistica ad allontanare i due popoli affacciati sulle sponde opposte del Mediterraneo. E, soprattutto, non c'è solo il tema immigrazione a connettere idealmente i due Paesi, né una vecchia storia imbastita da desueti (già allora) retaggi coloniali e di regime. C'è molto più di quanto non si pensi a mettere in relazione Italia e Libia, qualcosa che, forse, nonostante una memoria collettiva non sempre sufficiente a garantirne la sopravvivenza spinge il nostro Paese a qualche sforzo in più per garantire (o tentare di farlo) la stabilità del Paese, che vada al di là degli interessi economici o migratori. Una storia sbiadita, custodita nella memoria di chi, da quella terra, non si è allontanato ma è stato estromesso, cacciato, in nome dell'ascesa di un regime che ha etichettato quella presenza in Libia come un ricordo perenne di un periodo di occupazione, non per ciò che realmente era: una comunità che, con gli sforzi proprio di chi nasce e cresce in un Paese, aveva contribuito alla sua crescita.
L'impegno di Airl
La cacciata degli italiani dalla Libia è storia recente, tanto da rendere quasi incredibile che la maggior parte del nostro Paese l'abbia dimenticata. Persone che nulla avevano a che vedere con il passato fascista ma che, da un giorno all'altro, di quella terra non ebbero altro che un foglio di via, la confisca dei propri beni e la promessa del non rivederci. Furono loro che, approdate in Italia, diedero i natali all'Associazione italiani rimpatriati dalla Libia (Airl), oggi una Onlus, che nacque con lo scopo di accogliere e sostenere chi, nel 1970, fu vittima del colpo di Stato, costretto non solo a fuggire ma a lasciarsi dietro affetti e proprietà. Ma non la memoria: “Quelle persone – ha spiegato a Interris.it Daniele Lombardi, direttore della rivista ufficiale dell'Associazione – non furono private solo dei beni materiali ma anche dei contributi previdenziali. Ricevettero un certificato di nullatenenza, altrimenti non sarebbero potuti partire dalla Libia, sono stati rimpatriati pagandosi anche il viaggio… Poi, arrivati in Italia, qualcuno ha avuto fortuna di essere ospitato, altri sono andati nei campi profughi. Un possibile parallelismo con l'immigrazione odierna”. E fu proprio quella dei contributi una delle prime e più lunghe battaglie dell'Associazione: “Inizialmente non erano previsti: i cittadini italiani rimasti in Libia dopo la fine della guerra, per una legislazione fra i due Paesi, dovevano versare non all'Inps ma a un ente libico corrispondente i contributi previdenziali. Poi la confisca ha riguardato anche questi. La legge definitiva per riottenerli è stata fatto solo nel 1991: molte persone sono scomparse senza avere nemmeno la pensione per i contributi versati in passato”.
Un'isola felice
E' soprattutto la memoria di quella comunità che l'Airl tenta di far sopravvivere: “Oggi le nostre rivendicazioni sono più di tipo culturale: cerchiamo di non disperdere il patrimonio storico-emotivo che caratterizzò la presenza degli italiani in Libia. Negli anni 50-60, nonostante gli italiani fossero cattolici, vivevano in un contesto multiculturale e multireligioso che aveva creato amicizie che andavano oltre le divisioni religiose”. Un aspetto sostanziale della comunità italiana in Libia, che ha inevitabilmente creato una relazione estremamente forte fra il Paese e coloro che, oggi, sono i discendenti dei rimpatriati. O i più anziani fra loro: “Noi cerchiamo di portare avanti questo discorso culturale, una vicinanza con persone che teoricamente appartengono a contesti etnico-religiosi diversi o che sono visti come tali. C'è un problema di conflitto interreligioso, non solo in Libia ma in tutto il mondo. E' come se gli italiani in Libia fossero stati in un'isola felice dove ci si era dimenticati delle differenze”.
Una flebile speranza
Quel che accadde nel 2011, la caduta di Gheddafi e la successiva primavera del Paese che abbattè il vecchio regime per far posto ai primi sogni, avrebbe forse potuto far pensare che, dopo quattro decenni, le porte della Libia potessero nuovamente aprirsi per chi vi era nato: “C'è stato molto ottimismo – ha spiegato Lombardi -. Prima del trattato italo-libico del 2008, gli italiani nati lì non potevano tornare nemmeno con un visto turistico a meno che non avessero oltre i 65 anni di età. Dal 1970 al 2009, quindi, persone che avevano già subito la confisca di tutti i beni non hanno avuto nemmeno la possibilità di tornare a vedere i luoghi in cui sono nate e cresciute. E questa è stata una privazione tremenda”. Qualcosa cambiò con la liberalizzazione ma fu una speranza effimera: “Dal 2009 al 2011, molti hanno creduto davvero di poter ritornare, perlomeno a vedere un luogo del cuore, il posto dove erano nati, vissuti, le loro case, anche se la lottizzazione di Gheddafi aveva distrutto quasi tutto ciò che c'era. Ma anche le amicizie che c'erano, nonostante più di quarant'anni di dittatura. Nei libici anziani c'era ancora la voglia di incontrare di nuovo quelle persone conosciute da ragazzi. Magari era una speranza un po' infantile ma qualcosa che si voleva davvero. Si sperava in un governo, se non pienamente democratico, perlomeno che potesse giovare al popolo. Invece c'è stata, e c'è, una grossa delusione per quanto accaduto e per come quella terra continui a essere martoriata”.
Dal '70 al 2011
Un filo ininterrotto, dal 1970 a oggi, lega chi fu privato della propria storia e chi, dopo la fine del regime, aveva sperato di recuperarne almeno un pezzetto: “Nel '70, oltre la delusione, c'era anche un sentimento di ingiustizia, il non capire cosa né perché stesse succedendo. Anche per via dei messaggi che circolavano in radio, in cui si invitavano gli italiani a stare tranquilli, dicendo che sarebbero rimasti. Invece è poi cambiata la propaganda interna e si è arrivati a un sentimento anti-italiano che ha fatto di quelle persone un capro espriatorio per ciò che era stato fatto alla Libia all'epoca del colonialismo, nonostante non c'entrassero nulla. C'era un sentimento di incredulità, rabbia. Ora c'è un moto del cuore verso una popolazione per cui si sente fratellanza, estremamente vicina”.
Una memoria da non perdere
Ed è qui che si inserisce la mission che oggi costituisce il cuore pulsante dei libici italiani: “Noi promuoviamo ciò che gli italiani hanno fatto in Libia. Questa storia è difficile da trovare sui media mainstream e anche a livello storico. Ci capita spesso di vedere anche accademici famosi che parlano della storia della Libia, arrivano alla Seconda guerra mondiale, per poi riprendere dal '69. Vengono completamente eliminati quasi tre decenni in cui si è creata questa società e questa cultura in cui gli italiani – non quelli del regime – hanno dato il loro contributo alla crescita del Paese che, dall'essere 'uno scatolone di sabbia', com'era chiamato, ha scoperto il petrolio e ha affrontato una serie di vicissitudini che ne hanno fatto evolvere la società civile“. Un contributo scomparso dalle cronache e dalla storia ma che l'Airl cerca di tutelare e, nondimeno, di far conoscere: “E' importante che l'impegno degli italiani in Libia non venga nascosto: abbiamo una biblioteca di circa mille libri a tema Libia, a disposizione di studenti e ricercatori, molto frequentata anche per il ritorno di interesse per il Paese e per quella parte di storia rimasta nascosta ma che costituisce una vicenda umana e antropologica di grande importanza. Abbiamo anche un'emeroteca di migliaia di giornali, dal 1911 fino a oggi, peraltro anche digitalizzata, portiamo avanti progetti con musei, scuole e con chiunque sia interessato a saperne di più sugli italiani in Libia”. Una promozione culturale che si fa portavoce di una memoria collettiva che, ai tempi dell'escalation nel Paese, costituisce un importante capitolo di integrazione e coabitazione fra gruppi etnici e religiosi radicalmente diversi fra loro. E, in fondo, anche un pezzo di storia del nostro Paese che, con la vicina Libia, ha conosciuto davvero un punto di contatto fecondo, affidato alla memoria di chi lo visse e alla passione di chi lo ha ereditato.