In queste settimane, la città di Hong Kong sembra una grande tavola fatta di sette milioni di tessere domino che rischiano di capitombolare. Da quando il “Porto Profumato” (questo il significato del nome Hong Kong, ndr) è passato alla Repubblica Popolare Cinese nel 1997, la regione amministrativa speciale non ha mai assistito a una tale mobilitazione di massa. Il 28 luglio scorso, infatti, migliaia di manifestanti sono tornati in strada a protestare contro l'eccessivo uso della forza fatto nei loro confronti da parte della polizia locale. Secondo quanto riferiscono i media locali, nel pomeriggio di due giorni fa, i manifestanti si sono riuniti a Sheung Wan, nel cuore del quartiere commerciale della città, iniziando a marciare per le strade, sfidando così il divieto della polizia. La manifestazione è una diretta risposta all'escalation delle violenze avvenuta alla stazione di Yueng Long, dove centinaia di uomini armati hanno assalito i pendolari e i civili causandone il ferimento di 26, taluni in gravi condizioni. A costoro s'aggiungono – secondo i media locali – i 45 manifestanti che, negli ultimi giorni, hanno subito le violenze della polizia, deputata ad arginare una protesta a cui hanno partecipato oltre 300.000 persone.
Le ragioni delle proteste
A partire da giugno, le proteste locali, condotte già da aprile in modo sparuto, sono diventate più vigorose in seguito alla decisione, da parte della governatrice di Hong Kong, Carrie Lam, di rendere effettiva una legge sull'estradizione che, se approvata dal Parlamento locale, permetterebbe a Pechino di estradare in Cina continentale i cittadini hongkongesi accusati di aver commesso alcuni crimini e, dunque, processarli. Per gli oppositori, questa legge sarebbe l'anticamera di un controllo più capillare di Pechino nel sistema di Hong Kong, volto a minare la libertà di cui gode in quanto regione speciale. In virtù della Basic Law, infatti, fino al 2047 Hong Kong possiede un proprio sistema giudiziario e maggiori diritti politici economici e sociali, come l'accesso libero a internet e il diritto di votare i propri rappresentanti. Eppure, dietro alla parvenza di un modello virtuoso, le proteste che stanno montando nelle ultime settimane celano le crepe di un sistema che i critici percepiscono come “marginalmente democratico”, in cui la leadership regionale sembra sempre più coincidere con quella continentale. Come scrive Ilaria Maria Sala su Newsweek Japan ripreso dalla rivista Internazionale: “È significativo che nella conservatrice Hong Kong la violenza contro i manifestanti e l'ostinazione con cui Lam si rifiuta di aprire un dialogo abbiano spinto la maggioranza della popolazione a non condannare le azioni dei giovani. Numerosi sondaggi mostrano che l'opinione pubblica tende a puntare il dito più contro il potere che contro la piazza. E, persino i giornalisti hanno preso parte alle manifestazioni contro la violenza della polizia, assieme ai gruppi religiosi, agli avvocati agli assistenti sociali”.
Il progetto della Grande Baia
La Cina continentale ha da sempre avuto l'interesse a inglobare le regioni amministrative semiautonome nell'ombra governativa di Pechino e lo sta facendo in vari modi. Sicuramente, il contesto geografico rappresenta per la Repubblica Popolare Cinese l'occasione per legittimare la sua influenza su tutta l'area. Nella storia coloniale della Cina, il Delta costellato da Hong Kong, Macao e Taiwan rappresenta il punto di contatto tra il Mar Cinese Meridionale e il resto del mondo. Si spiega alla luce di tale complessità geopolitica il patchwork che caratterizza, sin dal Cinquecento,la costellazione delle colonie britanniche e portoghesi nell'enclave asiatico. Il Delta si collega al Fiume delle Perle, il terzo importante corso d'acqua della Cina dopo il Fiume Giallo, dunque via di comunicazione capitale nel tessuto frastagliato del Continente orientale. L'era moderna, compresa tra le Guerre dell'Oppio (1839-60) e la nascita della Repubblica di Cina (1912), ha caricato di significato anche politico tutta l'area. Per questo, oggi come non mai, alla luce dell'instabilità geopolitica dell'area asiatica, il Delta assume un ruolo essenziale nella politica estera di Pechino. D'altra parte, la Repubblica Popolare cerca di smorzare il divario amministrativo e sociale tra i due poli e sa bene quanto questo significhi muoversi su un terreno profondamente fragile. Un episodio tra i tanti di riguarda la concessione dei permessi di soggiorno ai residenti di Hong Kong, Macao e Taiwan, i quali hanno tutto l'interesse a ottenere questo beneficio per poter lavorare in Cina, ma anche formarsi e spostarsi godendo di svariati vantaggi. I manifestanti, che in maniera vigorosa chiedono le dimissioni della governatrice locale, Carrie Lam, criticano proprio la sua propensione a favorire le politiche della Repubblica Popolare Cinese, come la fornitura di sussidi ai tanti cittadini di Hong Kong che auspicano di poter godere della pensione nella Cina continentale. Allo stesso modo, serpeggia un sempre più chiaro sentimento anticinese in seno alla stessa cittadinanza, in particolare tra i più giovani. Questo è dovuto alla, sempre più cospicua, presenza cinese nel distretto: stando a quanto riportato da Newsweek Japan, ogni giorno cento cinesi sono autorizzati a trasferirsi ad Hong Kong. Questa immigrazione di massa ha ripercussioni sulla stessa identità della regione, come dimostra la stridente tolleranza linguistica tra chi parla il cantonese e chi il mandarino. Questa politica bilaterale ha un influsso in seno alla società honkonghese, con l'alta borghesia – fra cui la lobby fujianese – propensa a favorire un avvicinamento a Pechino e una classe sociale più bassa, in prevalenza composta dalle giovani generazioni, che rileva queste “aperture” come palesi minacce al proprio carattere peculiare, sancito dalla Basic Law, che permette alla regione di godere di alcuni diritti non concessi nella Cina continentale.
Le precedenti fratture
Domandarsi cosa si cela dietro al malcontento di Hong Kong signifca scontrarsi con una visione politica che, seppur non totalmente messa a fuoco, stride con quella, ben più monolitica, della Repubblica Popolare Cinese. Da un punto di vista politico, infatti, il concetto hongonkese di democrazia non coincide con quello di Pechino. Il gap, negli anni, ha assunto i contorni di una frattura, al cui allargamento ha contribuito l'atteggiamento coercitivo della stessa Cina. Nel 2016, per esempio, il prelievo e la detenzione di alcuni dirigenti editoriali e librai di Hong Kong da parte del governo cinese hanno gettato i semi di un problema che si sarebbe prevedibilmente ingigantito. Ma il silenzio di Pechino alle ultime proteste di Hong Kong non rivela, come parte dell'opinione pubblica ha ammesso, un atteggiamento di pura sorpresa. Già nel 2003, infatti, il governo cinese con a capo Tung Chee-hwa dovette far fronte all'imponente dissenso di Hong Kong, apparentemente motivato dalla cattiva gestione dell'emergenza Sars (la sindrome acuta respiratoria grave, ndr), ma che, come sottolinea la rivista di geopolitica Limes, nascondeva anche il timore per l'applicazione dell'articolo 23 della cosiddetta “minicostituzione” di Hong Kong, che impone alla regione amministrativa speciale l'adozione di misure stringenti per fronteggiare la sedizione e i casi di secessione. Una seconda frattura con Pechino avvenne nell'estate del 2012, quando centinaia di migliaia di hongonkesi si riversarono nelle strade per protestare contro il programma di educazione nazionale. All'epoca i critici non accettavano che, nelle scuole secondarie di Hong Kong, venisse imposta un programma di “educazione” da parte del governo centrale. La voce del dissenso parlava di “lavaggio del cervello” e il capo dell'esecutivo, Leung Chun-ying, dovette sospendere l'applicazione del progetto, rendendolo parte di una decisione arbitraria spettante ai singoli istituti. Dopo l'ennesima mobilitazione di piazza, la Repubblica Popolare Cinese cominciò a intravvedere una minaccia nei sommovimenti di Hong Kong che, per la loro portata, erano in grado di poter limitare la sfera d'influenza pechinese. Il timore acquisì un certo peso a partire dal 2012, quando il giurista Benny Tai, il sociologo Chan Kin-man e il reverendo Chu Yiu-ming diedero vita a una protesta nel distretto centrale, poi nota con il nome di Occupy Central, attraverso la quale chiedevano a Pechino la concessione del suffragio universale. In quel caso, la strategia della Cina fu quella di aspettare che il movimento, costituito da diverse anime dalla visione più o meno radicale, si dividesse al suo interno. Invero, così fu: se le tre anime di Occupy Central erano accusate di “eccesivo conservatorismo”, i giovani attivisti, capitanati dagli studenti Joshua Wong e Nathan Law, avevano una visione ben più radicale. Totalmente deflagrato, il movimento non fu in grado di farsi portavoce di un dissenso comune, alla fine. Intanto, il 31 agosto 2014, Pechino concesse ad Hong Kong una riforma elettorale che consentiva ai cittadini di votare direttamente il capo dell'esecutivo, scelto da una rosa proposta da Pechino. Ma questa proposta fu bocciata dagli elettori, che vi scrutavano un tentativo di raggirare le istanze del popolo attraverso pseudo-concessioni. Ciò che il governo centrale non fu in grado di arginare era il malcontento che ribolliva nelle aree locali. Nel 2016, per esempio, alcuni cittadini appartenenti al movimento “secessionista” dei localisti e membri del partito Youngspiration, vennero privati della carica parlamentare per aver recitato, in modo provocatorio, il giuramento nella cerimonia d'insediamento, definendo la Cina spregiativamente come Cheena – utilizzando, cioè, un toponimo dispregiativo utilizzato dai giapponesi durante la Seconda Guerra Mondiale.
Strategie di securitizzazione
Le manifestazioni di Hong Kong negli anni hanno indotto Pechino a considerare la regione amministrativa una potenziale minaccia. La Repubblica Popolare Cinese ha tutto l'interesse a garantire la stabilità del distretto, ma è anche consapevole che il malcontento non può essere smorzato facilmente. Nella conferenza stampa tenuta due giorni fa dall'Ufficio per gli affari di Hong Kong e Macao, la prima nella città dalla resituzione della colonia britannica a Pechino nel 1997, sono state condannate fermamente le proteste come “atti malevoli e criminali commessi da elementi radicali”. Come riporta Agenzia Nova, i manifestanti hanno da replicare biasimando, al contrario, la violenza degli agenti di Polizia, che non si è fatta scrupolo di caricare sui manifestanti. Come ha, infatti, dichiarato all'agenzia Jimmy Sham, membro del Fronte per i diritti umani e civili e fautore delle manifestazioni di protesta: “Abbiamo visto la polizia ricorrere alla violenza per schiacciare manifestanti pacifici. La violenza genera violenza, e poiché la Polizia vi ha fatto ricorso per prima, i manifestanti non hanno altra scelta se non rispondere”. Secondo il quotidiano South China Morning Post, Pechino ha “escluso il ricorso alla forza militare” anche se sta studiando il modo di conferire una nuova impronta all'ombra di Pechino su Hong Kong. Secondo alcune fonti anonime, si tratterebbe di un “piano urgente” volto ad arrestare l'onda della crisi politica che gran parte degli honkongesi sembra non voler fermare. In passato, la Cina continentale ha cercato di abortire qualsiasi velleità democratica con diverse strategie. Dal punto di vista politico, ha cercato di avvantaggiare l'élite locale, a cui Pechino ha delegato il ruolo commerciale di ponte fra la Cina e l'Occidente; questo s'è tradotto in un riassetto politico interno, con il Legislative Coucil (il parlamento, ndr) e l'Election Committee in mano proprio all'élite locale. Dal punto di vista geoeconomico, invece, il progetto della Repubblica Popolare Cinese è molto più ambizioso: considerando il ruolo centrale di Hong Kong all'interno dell'area del Delta del Fiume delle Perle, negli anni Pechino ha cercato di creare una struttura sinergica fra Hong Kong, Macao e l'area del Guangdong con il preciso obiettivo di integrare le regioni fra di loro e, dunque, uniformarle dal punto di vista amministrativo e politico.
L'esempio di Macao
Probabilmete, il futuro dei rapporti fra Hong Kong e Pechino è incerto, ma per capire la strategia della Repubblica Popolare Cinese nelle regioni autonome basta dare un'occhiata a Macao, anch'essa Regione amministrativa speciale, entrata sotto l'egida cinese due anni dopo Hong Kong, nel 1999. Sebbene anche a Macao sia stata riconosciuta una parziale “autonomia” amministrativa, nel 2018 l'ex colonia portoghese ha istituito una Commissione per la sicurezza nazionale e, in seguito, approvato una serie di leggi stringenti sui media, le telecomunicazioni e persino le proteste di piazza. Accorpare Hong Kong a Macao con il progetto dell'Area della Grande Baia favorirebbe, dunque, non solo una rete commerciale più prolifica, ma anche un'integrazione politica con maggiore cooperazione economica fra le varie aree. Come ricorda la rivista di geopolitica Limes, “Il modello di integrazione economica tra Hong Kong e il Guandong è stato plasmato dai vertici della Repubblica Popolare, che guardano alle due Regioni amministrative speciali come magneti in grado di calamitare Taiwan nell'orbita economica e, auspicabilmente, politica di Pechino”. Hong Kong resta, dunque, una risorsa essenziale per l'economia cinese, a cui s'aggiunge un ruolo altrettanto politico. La sensazione è che il peso complessivo delle aspettative della Repubblica Popolare Cinese sulla regione sia ora così gravoso da rischiare di frangersi proprio in quell'Area della Grande Baia che, per “diritto di nascita”, sente l'impulso ad affacciarsi oltre i confini claustrofobici del Mar Cinese Meridionale.