Povertà e guerre sono universalmente riconosciute come le cause principali dei flussi migratori che da decenni interessano l'Europa. Ma non c'è solo questo. Un altro fenomeno porta migliaia di persone a risalire il continente africano alla ricerca di una via di fuga. Un esercito di disperati, forzosamente espropriati del bene più prezioso in Paesi nei quali l'agricoltura continua a essere il principale motore dell'economia: la terra.
Il fenomeno
Parliamo del land grabbing (letteralmente “impossessamento dei terreni”), la progressiva e inesorabile acquisizione (tramite leasing, compravendita e uso di fondi sovrani) di vasti appezzamenti in Paesi diversi da quelli di origine da parte di multinazionali estere e Stati stranieri. Partiamo dal principio: negli anni la necessità di garantire la sicurezza alimentare ai propri cittadini è diventata una priorità per diverse nazioni. Tra queste Russia, Stati Uniti, Arabia Saudita, Cina, India ed Emirati Arabi. Non solo: “la crescita degli investimenti nel mercato dei biocarburanti – spiega un'analisi realizzata dal Centro studi internazionali – ha ulteriormente contribuito alla diffusione del fenomeno. Infatti, i biocarburanti sono diventati fonti energetiche alternative di primaria importanza davanti alla riduzione della disponibilità di risorse non rinnovabili, come i combustibili fossili“. Ma se le risorse, all'interno del territorio nazionale, sono limitate, allora diventa fondamentale l'approvvigionamento al di fuori dei propri confini, magari sfruttando la compiacenza dei governi locali, che guardano con crescente favore gli investimenti provenienti dall'estero. Ne è emerso un fenomeno da molti definito, senza troppi giri di parole, un vero e proprio “neocolonialismo” ai danni dei Paesi più poveri. Oxfam, recentemente, ha parlato del land grabbing come di “uno scandalo che esiste da tempo. Ma che dallo scoppio della crisi finanziaria è cresciuto enormemente (circa il 1000% in 10 anni ndr), spingendo alla fame migliaia di contadini del Sud del mondo”.
Cacciati
Diverse le regioni del mondo interessate: America del Sud, Sud-est asiatico, Asia centrale e, appunto, Africa, la più colpita. Basti pensare che nel Continente nero, oltre 15 milioni di ettari di terreno sarebbero controllati attraverso gli strumenti contrattualistici tipici del land grabbing. Il condizionale è d'obbligo. Numeri ufficiali, al momento, non esistono. A ciò si aggiunge il fatto che molte di queste operazioni avvengono di nascosto, attraverso trattative riservate fra imprese e governi locali e ricorrendo a investimenti con denari provenienti da paradisi fiscali. Evidenti sono, però, gli effetti. Tra questi c'è la perdita dell'unica fonte di reddito per centinaia di piccoli contadini. I quali, magari, costretti a riparare in Paesi vicini mentre sanguinosi conflitti seminano morte sulle loro terre, al loro ritorno si trovano nell'impossibilità di continuare a svolgere il loro lavoro. Perché nel frattempo i fondi che coltivavano sono stati ceduti ad aziende estere. Privi di qualunque sostentamento, persone che sino ad allora riuscivano faticosamente ad assicurare un pasto alle loro famiglie finiscono col trovarsi a mani vuote, andando a rimpolpare la lunga schiera dei cosidetti “migranti economici” in viaggio verso l'Europa.
Casi tipici
Nel suo studio il Cesi cita due esempi di land grabbing in Africa. Il primo caso è quello dell'isola di Kalangala, in Uganda, dove a partire dal 2002 la Oil Palm Uganda limited (azienda dedita alla produzione del famigerato olio di palma) ha acquisito circa 7.500 ettari di terreno lasciando, senza alcun preavviso, gli agricoltori locali con un pugno di mosche e offrendo loro, a titolo di indennizzo, somme irrisorie. Il secondo è quello della regione etiope di Gambella, dove l'azione minacciosa dell'esercito nazionale ha costretto migliaia di residenti ad andarsene. Il tutto in esecuzione di un piano governativo che puntava a liberare quelle terre per favorire l'ingresso di investitori stranieri. Oggi, spiega l'analisi, in loco è attiva l'azienda araba Saudi Star, che produce riso e zucchero, sfruttando circa 15mila ettari di terreno fertile.
Economia e politica
Il fenomeno è favorito da diversi fattori. Alla base c'è, innanzitutto, il problema della poca chiarezza del diritto locale, che favorisce pratiche illegali, talvolta anticostituzionali. Ci sono, poi, le ambizioni dei singoli governi, che vedono nei potentati esteri un'occasione per accrescere il proprio prestigio e per far crescere il Paese, nonostante le crescenti tensioni sociali determinati dalle proprie scelte. Non a caso, talvolta, queste politiche vengono raccontate come un tentativo di creare opportunità di lavoro e sviluppo, trovando l'appoggio anche della Banca Mondiale. Non mancano poi ragioni più prettamente interne. L'asse fra esecutivi africani e multinazionali consente ai primi di esercitare un maggiore controllo del territorio e di redistribuire gli equilibri etnici secondo esigenze di natura politica. Un'operazione “win win” per gli attori in campo, le cui conseguenze si abbattono, in modo spietato, sui più poveri.