Èstato quasi unico il fermento politico che, negli ultimi tempi, ha improvvisamente percorso l'America Latina da nord a sud, come il più classico dei fili rossi che uniscono i disagi di Paesi diversi accomunati da un'identica rivendicazione della sovranità popolare. Vale per la Bolivia, per l'Ecuador ma anche per nazioni che poggiano meno sulla componente amerinda, Argentina e Uruguay in testa, ma anche per il Cile, come gli ecuadoriani scosso da una manovra di rincari che, a lungo andare, ha logorato la pazienza della massa. Scenari diversi però, con le proteste a “ferro e fuoco” di città come Bogotà, Quito e Santiago, e la rivoluzione elettorale che ha arginato la deriva neoliberista argentina per restituire alla popolazione il ritorno del peronismo.
L'Argentina e il “male minore”
Una svolta quasi obbligata per l'Argentina, che affida ad Alberto Fernandez, veterano del Partido Justicialista dell’ex leader dei descamisados, la ripartenza dopo la crisi economica che ha letteralmente messo in ginocchio il Paese, tirando di fatto una riga sulla parentesi liberista dell'ex presidente Mauricio Macri. Anche alla luce delle misure adottate dall’uomo della Propuesta republicana, cade la lettura della vittoria elettorale di un candidato che, non senza qualche sorpresa, è riuscito a riportare sulla scena politica anche Cristina Kirchner (vicepresidente), visto probabilmente come il male minore da un elettorato che, a conti fatti, ha preferito glissare sulla vicepresidenza di Kirchner piuttosto che confermare la fiducia, ormai esaurita, nei confronti del Pro. Non che la sfida politica sia facile per Fernandez, costretto a fare i conti con una crisi tutt’altro che rientrata e anche con un prestito di quasi 60 miliardi dal Fondo monetario internazionale che lascia aperta la via del crack finanziario. Del resto, qualche dubbio sul Fernandez presidente, uno che è stato capo gabinetto all'epoca di Nestor Kirchner (e in rapporti controversi con la figlia Cristina), gli argentini se lo riservano, specie per il suo approccio all’economia che lascia temere una politica estrema in senso opposto rispetto a quella neoliberista appena messa da parte. Il presidenzialismo argentino, forte per antonomasia, potrebbe in sostanza riflettersi anche sul piano economico, con una rigidità e un rischio d'ingerenza che potrebbe non giovare a un Paese che, come prima mossa, dovrà riportare a galla il comparto popolare della società argentina, scivolato tremendamente indietro nell’assetto economico, versando in stato di equilibrio estremamente precario sulla soglia di povertà, in molti casi al di sotto. Anche per questo, in fase di campagna elettorale, Fernandez ha messo il contrasto alla povertà in cima alla lista del programma di governo che, però, passerà giocoforza anche da una rinegoziazione del debito monstre contratto col Fmi, forse la partita più delicata di una presidenza portata alla Casa Rosada con il preciso compito di rimettere in moto la forza produttiva di un Paese in fase di stagnazione.
Il sogno della democrazia in Cile
Quaranta centesimi. È il prezzo della rivolta scoppiata in Cile contro il rincaro dei biglietti dell'autobus di 30 pesos negli orari di punta. Un fenomeno all'apparenza marginale, se non avesse preso una piega politica. Dopo i primi dissensi contro l'aumento, l'ex ministro dell'Economia, Andres Fontaine, aveva invitato i lavoratori che protestavano ad “alzarsi prima” la mattina e, come se non bastasse, aveva anche dichiarato che “per le persone romantiche […], i prezzi dei fiori sono diminuiti del 3,7%”. I proclami oltraggiosi del governo conservatore di Sebastián Piñera hanno scoperchiato la pentola di un malessere che dura trent'anni. Nella piazza, i giovani hanno urlato “Non è per 30 pesos, ma per 30 anni di neoliberismo”. Per tracciare la mappa della protesta in un Paese che ha subito una schizofrenia tale da essere stato considerato “il miracolo dell'America Latina” prima, ed avere assistito al suo tracollo economico poi, conviene guardare i cartelli e gli striscioni esposti dai manifestanti per le strade della capitale. La storia del Cile ha un profilo politico controverso: trent'anni dopo il referendum che negò un altro mandato ad Augusto Pinochet, il generale golpista che aveva ucciso l'ex presidente Salvador Allende, il Cile ha visto avvicendarsi governi di destra e di sinistra, tutti immersi in un ideale di libertà che era più il riflesso di una rivendicazione che la rivendicazione stessa. Sul profilo economico, il Paese per anni è stato considerato un modello per tutto il subcontinente latino. Galvanizzato dai modelli di Ronald Reagan negli Usa e di Margaret Tatcher in Gran Bretagna, fu avviato il primo esperimento di economia neoliberista a sud di Washington. Apparentemente, avvenne il miracolo: fondandosi sulle esportazioni, negli anni Novanta il Cile divenne fra i maggiori esportatori mondiali di vino. Ma come un Giano bifronte, l'altra faccia della ricetta importata dai cosiddetti Chicago Boys era la privatizzazione dello Stato, dalle farmacie ai servizi di trasporto pubblico. La crescita all'apparenza miracolosa ha, così, subito una brusca frenata ed ha rivelato le falle di un sistema sempre più disuguale. Secondo la Commissione economica per l'America Latina e i Caraibi (Cepal), oggi l'America Latina conta circa 60 milioni di persone in condizioni di povertà estrema. I protagonisti della guerriglia urbana che si sta consumando in questi giorni sono i giovani cileni. Come scrive Camillo Boano su Il Manifesto, dopo la rivolta “gli studenti dell'Instituto Nacional hanno incitato a sfuggire ai tornelli della metro”. Mentre la repressione si è fatta sempre più stringente anche nei confronti degli studenti delle scuole superiori, la protesta ha plasmato la città di Santiago. Sabato scorso, 14 fermate della metro risultavano bruciate e 56 erano state vandalizzate. Amnesty International parla di “spargimenti di sangue come non si vedevano da decenni” perché, stando alle loro ricognizioni,dall'inizio della protesta si conterebbero almeno 18 morti e circa 600 feriti. Nonostante il pugno duro, il presidente Piñera ha proposto alcune soluzioni per sedare la protesta, ma è netta l'impressione che la protesta abbia assunto i contorni di un'onda che segue ormai il suo corso. Così scrive Carla Simioni, membro della Comunità Papa Giovanni XXIII, che vive con il marito in Cile: “Il Cile è un popolo in marcia senza un leader credibile, un gregge senza pastore. Il Paese si è svegliato, e in questo risveglio, insieme a migliaia di persone che manifestano pacificamente chiedendo a una sola voce centinaia di riforme mai concesse in quarant'anni anni né dai governi di destra, di centro o di sinistra, si sono svegliati anche centinaia di vandali, violenti, ladri che stanno distruggendo supermercati, banche, stazioni della metro, autobus di linea, scuole, strutture pubbliche, che rubano anche alla povera gente, ai piccoli negozi e imprese familiari”. Nonostante il caos e la paura collettiva, la gente continua a protestare. Per i cileni, il futuro non è chiaro, ma ciò non toglie che sia percepita l'urgenza di cambiare pagina e ripristinare la democrazia anche a costo di un riassetto dei vertici del governo.
L'ago della bilancia in Bolivia
Se il passaggio di consegne si è consumato nel recinto della democrazia in Argentina, le cose in Bolivia non sono andate altrettanto bene. Colpa non tanto dei dodici anni di governo Morales, quanto piuttosto di una ricandidatura per il quarto mandato di fila che di democratico non aveva tanto il sapore, visto che il presidente aveva sorvolato sul risultato di un referendum indetto per mettere ai voti la possibilità di vederlo correre di nuovo. Una votazione popolare, datata febbraio 2016, che non aveva deposto in favore della ricandidatura, seppure di un soffio (51,3%). Indice di un elettorato probabilmente orientato su una linea di cambiamento (nonostante un comprovato innalzamento degli standard di vita in Bolivia sotto la presidenza Morales) e quantomeno perplesso sul fatto che un presidente potesse davvero correre per un quarto mandato, e sul fatto che un eventuale “sì” costituisse una scelta democratica. Il referendum, per quanto il risultato sia stato ufficialmente rigettato con una sentenza dell'Alta corte boliviana, rappresenta una delle variabili che hanno fatto gridare al broglio il principale rivale, Carlos Mesa, che dopo aver preso atto della nuova corsa presidenziale di Morales, si è ritrovato di fronte non solo a uno stravolgimento dei risultati dei sondaggi (che davano il presidente in calo) ma anche al blackout del sistema di conteggio che propendeva al ballottaggio, prima che riapparisse fortemente sbilanciato a favore del leader del Mas. E sono stati proprio i partiti d’opposizione, con Mesa in testa, a guidare il sollevamento popolare che ha letteralmente messo a ferro e fuoco La Paz, Santa Cruz e altre città boliviane, con la seconda in particolare (nucleo del movimento antipresidenziale) a farsi portavoce del malcontento popolare. Del resto, nemmeno la campagna elettorale del presidente è stata semplice, stretto fra la morsa della disputa dello sbocco sul mare con il governo cileno, trattativa centenaria ma mal gestita da Morales secondo le opposizioni, e la questione incendi, terreno estremamente scivoloso per un presidente di etnia Aymara (quindi nativo) che, di colpo, si è ritrovato addosso l’accusa di aver favorito il disboscamento in nome dell’avanzamento dei terreni agricoli. Praticamente la stessa affibbiata al rivale brasiliano, Jair Bolsonaro, anche se non esattamente speculare. Perché l'impegno del governo boliviano da luglio contro gli incendi (anche attraverso aiuti internazionali) c'è stato, ma è arrivata anche l'accusa (un'altra) di aver avallato incendi controllati nella zona di Santa Cruz per fini agricoli modificando la normativa vigente in materia. Una querelle ambigua ma sufficiente a far traballare il consenso del pluridecennale presidente anche fra la popolazione indigena, che in Bolivia riveste un certo peso. Questa la genesi della disputa. Il futuro, con Mesa che pone l'aut aut “governo o carcere”, è tutto da vedere.
Le proteste si placano in Ecuador
Ottobre rosso per l'Ecuador, un Paese che ha visto nei suoi 256mila chilometri quadrati montare la rivolta sociale. La capitale Quito, messa a ferro e fuoco, ha preceduto Santiago del Cile di una manciata di giorni e non solo per le manifestazioni coordinate dalla Conaie, la Confederazione delle nazionalità indigene dell'Ecuador. Nel Paese, la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata il cosiddetto “paquetazo”, cioè il pacchetto di misure di austerity caldeggiato dal Fondo Monetario Internazionale che prevedeva, tra le altre cose, l'eliminazione dei sussidi statali ai combustibili e la liberalizzazione del prezzo di benzina e diesel. A due anni di distanza dalla schiacciante vittoria alle presidenziali, i proclami di Lenín Moreno, che da vicepresidente amava ripetere: “Il potere è esercizio d’umiltà, di servizio e non di vanità” sono risultati sbiaditi.
Il presidente dell'Ecuador ha temuto molto dal montare delle proteste: è ancora vivido il ricordo delle precedenti desituzioni in un Paese che, prima dell'avvento della Revolución Ciudadana di Rafael Correa, ha avuto sette presidenti in dieci anni. Nelle scorse settimane, le proteste nella capitale avevano assunto contorni violenti con atti di vandalismo a negozi e uffici ed uso massivo della forza da parte degli agenti di sicurezza, come Amnesty International ha più volte denunciato. Dopo undici giorni di proteste, una decina di morti accertati e un centinaio di feriti gravi, il 13 ottobre scorso, i leader indigeni e il governo di Moreno hanno pattuito per il ritiro del decreto 883, e l'istituzione di una commissione che ne elabori uno nuovo sotto la mediazione e osservazione dell' Onu e della Conferenza Episcopale Ecuadoriana. Al termine dell'incontro, la gioia è esplosa incontenibile per le strade, dove migliaia di persone stremate si sono riversate per festeggiare una vittoria conquistata con il sangue. “Inizia un dialogo rispettoso, un accordo concreto” sono state le parole del vescovo Luis Cabrera, vicepresidente della Conferenza Episcopale Ecuadoriana, che ha sottolineato la preziosità di riconosere la diversità del popolo ecuadoriano: “Ha trionfato la decisione di vivere in pace, in un Paese dove si rispettano i diritti civili e sociali di ognuno – ha aggiunto – […]. Vogliamo vivere come fratelli e sorelle ed essere protagonisti di un cammino”. Resta ancora tanto da fare per proseguire sulla via della pace. L'accordo è un traguardo storico. Nelle prossime settimane si vedrà se davvero i diritti ottenuti saranno rispettati.