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La Cina riscopre la paura dei processi di piazza

Un processo pubblico per 24 criminali comuni: succede in Cina, malgrado sia vietato dalle leggi della Repubblica Popolare. Un tribunale della contea Huarong, nella provincia centro-meridionale dell’Hunan, ha disposto la seduta, retaggio dei tempi di Mao Zedong: oltre 5 mila persone si sono riunite per osservare il procedimento.

Gli accusati sono stati portati nel palazzetto dello sport locale su un camion scoperto: tutti avevano al collo un cartello con il nome e il presunto crimine commesso. I primi otto sono stati condannati per rapimento, stupro e furto, mentre altri otto, accusati di frode e traffico di droga, sono stati destinati alla “detenzione criminale”. Infine, gli ultimi hanno ricevuto un avviso di arresto per omicidio colposo e furto. Il processo è stato celebrato dai leader della polizia, del procura e del tribunale: fra il pubblico, soprattutto membri del governo locale e delle municipalità vicine.

Una circolare emessa nel 1989 dalla Corte Suprema del Popolo, dal ministero della Pubblica sicurezza e dal Procuratore nazionale proibisce le apparizione pubbliche di coloro che sono stati condannati alla pena di morte e di chi ancora non ha ricevuto una sentenza: nel 1992, una nuova direttiva allarga la proibizione a “ogni criminale e sospetto”. Malgrado questo, negli ultimi anni, sembra che i processi pubblici siano tornati di moda.

Secondo alcuni analisti, la mossa è un altro tassello del processo di “maoizzazione” del governo centrale. Xi Jinping, attuale presidente e Segretario generale del Pcc, ha rilanciato diverse campagne moralizzatrici tipiche dei tempi di Mao: ora sembra intenzionato a riportare in auge anche i vecchi usi della Rivoluzione culturale.

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