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Kemi Seba: un leader africano contro il neocolonialismo

Stellio Gilles Robert Capo Chichi, al secolo Kémi Séba, è quello che si dice un figlio del proprio tempo. Nato nella francesissima Strasburgo da genitori originari del Benin, Stato dell’Africa Occidentale ex colonia francese fino alla definitiva indipendenza nel 1960, Kémi Séba incarna la figura del giovane intellettuale rivoluzionario, capace seppur nelle sue contraddizioni, di ridestare una riflessione critica riguardo allo status quo e allo stesso tempo insidiare, neanche troppo, il pensiero unico globale. Sono proprio le contraddizioni a consentirgli una certa visibilità nei circoli culturali dissidenti della politica internazionale, ma anche le stesse che non permettono al suo messaggio di assumere una connotazione “ecumenica”. Troppo aggressiva la sua postura, tanto da essere facilmente etichettato come razzista, antisemita e intollerante, dal sistema mediatico occidentale che Seba accusa di esercitare una violenza di tipo simbolico, più sottile e devastante delle forme più cruente di repressione civile. Un’accusa la sua, ma che non esprime niente di originale.

“Tribu Ka”

Il suo pensiero maturo, più edulcorato rispetto alla radicalità delle prime posizioni afrocentriche, può oggi confinarsi nella categoria politica del cosiddetto “panafricanismo”, quella corrente ideologica che teorizza un continente africano unito politicamente e finanziariamente, nel rispetto e nella salvaguardia delle diverse e molteplici appartenenze etniche e tradizioni culturali. Ne più ne meno del sogno europeo reso progetto politico dal Manifesto di Ventotene, ad oggi ancora in embrione a causa degli immaturi egoismi nazionali e di quelle che lo stesso Seba definisce “forze predatrici esogene” per riferirsi, nel suo caso, agli interessi neocoloniali occidentali che continuano ad opprimere i popoli africani al fine di sfruttarne risorse umane e naturali. Nel 2004, appena venticinquenne, Kemi Seba fonda in Francia il movimento “Tribu Ka”, ben presto disciolto dal presidente Chirac su proposta dell’allora ministro degli interni Nikolas Sarkozy, lo stesso che qualche anno dopo, assunta la massima carica dello Stato, sarà primo artefice della deposizione e della morte violenta del colonnello Mouammar Gheddafi, l’ultimo, in ordine di tempo, dei leader politici che hanno perseguito l’utopia di una grande nazione africana.

Il legame con l'Islam

Non a caso Kemi Seba si dice espressamente ispirato dagli insegnamenti del suo mentore Khalid Abdul Muhammad, importante figura prima del movimento “Nation of Islam” di cui Seba è stato nominato rappresentante in terra francese, poi del New Black Panther Party, quest’ultimo surrogato illegittimo del “mitico” Movimento delle Pantere Nere. Khalid Abdul Muhammad era divenuto buon amico proprio del colonnello libico, a seguito del suo primo viaggio a Tripoli come emissario del reverendo Louis Farrakhan, guida suprema del “Nation of Islam” statunitense, molto apprezzato dallo stesso Khadafi. Il rais, tuttavia, era troppo laico per la visione panarabista di Seba che infatti non nasconde di ritrovare in Gamal Abdel Nasser il suo modello di leader politico. L’appartenenza di Seba alla religione musulmana, rappresenta allo stesso tempo un elemento di debolezza e di forza del suo pensiero politico: una battaglia per la liberazione del popolo nero africano dal giogo neocoloniale, che Seba identifica principalmente con la Francia e da questa esercitato soprattutto attraverso il controllo del sistema monetario di ben 14 Paesi africani, è difficile immaginarla fondata, anche se solo in parte, su di una base ideologica a carattere confessionale. Per converso, le fondamenta valoriali di un credo religioso possono colmare il vuoto sostanziale che contraddistingue la dialettica politica attuale, attorcigliata sul medesimo modello economico di stampo capitalista.

Le presunte analogie con il sovranismo

Un altro limite del personaggio Kemi Seba è rappresentato, suo malgrado, dalla condizione di oriundo che inevitabilmente ne sfibra il nerbo del discorso e che spesso lo rende strumento inconsapevole di interessi tanto alieni alla sua missione quanto in fondo avversi alla sua vulgata. Un Thomas Sankara, un Patrice Lumumba, non avrebbero capito, non ci sarebbero state le condizioni neppure immaginabili per riscontrare analogie teoriche, seppur minimali, con una parte di mondo intellettuale associato a una visione suprematista. Del resto il sovranismo all’europea, la rivendicazione dell’autodeterminazione dei popoli e dei particolarismi etnici di alcune frange di pensiero dissidente non sottendono alcun carattere di internazionalismo o di istanza terzomondista.

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