Prima e più semplice conseguenza: riaprire i battenti di Westminster e far tornare operativo il Parlamento. Il resto sarà tutto da vedere per Boris Johnson, il primo ministro rimasto falco della Brexit, che lancia un boomerang da una tonnellata decidendo di sospendere i Comuni per poi ritrovarselo nuovamente addosso quando i giudici della Corte Suprema confermano il pronunciamento dell'Alta corte scozzese, dichiarando illegale la sua mossa. Una decisione storica, senza dubbio. Il primo ministro che viene indicato in difetto rispetto alla legge del Regno Unito sarebbe già di per sé un fatto grave, ulteriormente appesantito dal fatto di aver “misled the Queen”, letteralmente “fuorviato la Regina”, che aveva approvato la sua richiesta di stop al Parlamento un mese fa. Una sentenza gravissima, non solo a livello politico ma anche agli occhi dei britannici che, ora, rischiano non solo la deriva verso una Brexit (scadenza 31 ottobre) sempre più caotica ma anche di ritrovarsi con un governo già privo di maggioranza e, soprattutto, alle prese con le conseguenze di un'azione che, almeno nelle intenzioni, avrebbe dovuto favorire il processo di uscita.
Confusione
Il premier continua a ribadire che il Regno Unito uscirà dall'Unione europea il 31 ottobre ma, anche se l'onda degli eventi è per ora contenuta, la decisione dei giudici rischia di pesare come un macigno nell'economia del governo Tory. Da un lato, infatti, l'annullamento dello stop al Parlamento ha servito alle opposizioni l'occasione per scagliarsi nuovamente a voce unica (compresa quella dei liberaldemocratici e dello Scottish national party) contro il premier, chiedendo in modo unanime che Johnson si faccia da parte; dall'altro, il primo ministro britannico rischia di veder vacillare non solo la sua posizione a Downing Street ma anche di perdere il suo peso negoziale nei confronti di Bruxelles che, ora, si trova di fronte a una premiership senza numeri in Parlamento, pressata su tutti i fronti dell'opposizione e con un popolo britannico che inizia sempre più spesso a esporre cartelli anti no deal, specie dopo la pubblicazione del dossier Yellowhammer, con gli scenari più estremi che il governo ha tracciato in caso la Brexit dovesse concludersi infine senza accordo. Non c'è il rischio di un'azione a livello penale nei suoi confronti ma Johnson potrebbe comunque vedersi costretto a chiedere elezioni anticipate, volendo dare per scontato il fatto che non rinuncerà al suo ruolo di premier.
Verso nuove elezioni?
Altro punto non trascurabile: l'intervento della Corte Suprema ha di fatto sciolto lo stallo che il dubbio sull'effettiva possibilità dell'esecutivo di imporre lo stop all'organo legislativo aveva suscitato, ribadendo la libertà democratica del Regno Unito e costringendo Johnson all'angolo come mai era stata Theresa May prima di lui. Questo, però, non toglie che la ripresa dei lavori del Parlamento annunciata dal portavoce John Bercow avverrà per ora solo in modo ufficiale, senza che vi siano (verosimilmente) sessioni di discussione in calendario. E questo perché, in sostanza, non lo erano neanche prima essendo periodo di congressi, con sospensione prevista delle attività parlamentari: i laburisti, ad esempio, sono a Brighton per la loro convention annuale e non rientreranno prima di giovedì, ed è proprio dalla costa sul Canale della Manica che Corbyn è tornato alla carica chiedendo le dimissioni del premier. Un'idea che non sembra sfiorare nemmeno Boris Johnson, propenso piuttosto a indire una nuova tornata elettorale che, stavolta, rischia seriamente di veder estromessa una maggioranza Tory che, nei numeri, già non c'è più da qualche settimana. Il pronunciamento della presidente della Corte Suprema, Lady Hale, risuona infatti in tutta la sua eco: “La decisione di consigliare a Sua Maestà di prorogare il Parlamento era illegale perché aveva l'effetto di frustrare o impedire la capacità del Parlamento di svolgere le sue funzioni costituzionali senza una giustificazione ragionevole”. L'unica nota in favore del premier, la probabile mancanza di numeri sufficienti anche alle altre forze politiche ma le parole di Lady Hale rischiano di pesare nell'ambito di una nuovo giro alle urne.
Campo minato
Sul piano Brexit, da un punto di vista pratico cambia poco. La legge anti-no deal il Parlamento l'aveva già fatta passare, imponendo a Johnson l'obbligo di chiedere una nuova proroga a Bruxelles il 19 ottobre qualora per quella data non fosse riuscito a raggiungere un'intesa con l'Unione europea. Una circostanza sempre più probabile proprio in virtù della stabilità ormai precaria di una premiership che, in poco tempo, si trova a dover far fronte a una delle crisi peggiori dall'instaurazione del governo conservatore. Un accerchiamento che non sposta più di tanto gli equilibri in termini di negoziati, dal momento che i punti critici restano quelli di prima (anzi, con rischio di ulteriori nodi e sempre meno tempo a disposizione), ma che riduce sensibilmente la caratura decisionale del governo che, del resto, dagli obblighi dell'anti-no deal non può esimersi. Boris Johnson al momento è a New York, all'Assemblea delle Nazioni Unite, dalla quale dovrà tornare con in tasca la soluzione per uscire da questo stallo ma anche con la consapevolezza di dover calpestare un campo minato. E stavolta la Brexit è solo uno degli elementi orbitanti nella confusa galassia della politica britannica.