Tecnicamente poteva farlo Boris Johnson. E in pratica lo ha fatto, riuscendo a cavarsela in un vicolo stretto e irto di ostacoli sotto forma di cavilli costituzionali, piazzando il colpo a effetto della sospensione prolungata della Camera dei Comuni fino alla data del 14 ottobre, giorno in cui sarà fissato un clamoroso Queen's Speech. Una mossa a sorpresa che ha preso un po' tutti in contropiede quella del primo ministro britannico che, se da una parte riduce al minimo le possibilità di discutere la Brexit in Parlamento, dall'altra lascia trasparire la sensazione che il risultato cercato fosse proprio quello, come sospettato immediatamente dal portavoce dei Comuni John Bercow: “Comunque sia travestito, è palesemente ovvio che lo scopo di sospendere il Parlamento ora sarebbe quello di fermare la discussione sulla Brexit, impedendo di svolgere il proprio dovere nel plasmare un corso per il paese”. Più stringato, il sospetto di Bercow (che solitamente non commenta decisione politiche esterne alla Camera) è che Johnson voglia impedire che un eventuale dibattito prolungato possa ritardare ulteriormente l'uscita della Gran Bretagna dall'Unione europea.
Il doppio rischio
Per il portavoce dei Comuni si tratta di “un oltraggio costituzionale” ma, a livello legislativo, l'unica che avrebbe potuto opporsi a una tale decisione era la Regina Elisabetta II. Anche qui, però, entra in ballo la lunga tradizione inglese che, a questo tipo di situazioni, difficilmente ha posto il sovrano di traverso sulla strada della politica (almeno nei casi storici in cui a tentare mosse simili è un capo del governo e non un regnante stesso). E infatti, non solo la Regina non si è opposta ma anche dato il proprio avallo, facendosi coinvolgere anche nel Queen's Speech, previsto al termine della prorogation che legherà le mani al Parlamento fino a metà del mese di ottobre. A ben vedere, una mossa rischiosa per due ragioni: bloccando la discussione alla Camera fino a quella data, il margine di manovra per scongiurare una Brexit “no deal” sarebbero pressoché nulli e, anche in caso di una mozione indicativa, mancherebbe i tempi tecnici affinché questa riesca a diventare legge. D'altro canto, si concretizzasse lo scenario peggiore, Johnson potrebbe non solo ritrovarsi un Paese fuori dall'Europa senza accordo ma anche una rovente opposizione politica che, nella strategia del premier, intravede un colpo di mano in chiave anti-democratica. Del resto, se nella lunga storia britannica i precedenti in questo senso siano così esigui, un motivo ci sarà.
Politica britannica rovente
Praticamente una sollevazione da parte dei laburisti, con Jeremy Corbyn e i suoi che gridano al “golpe costituzionale”, unendosi alla voce delle altre opposizioni nel lanciare la sfida del Parlamento alternativo (con tanto di manifesto alla Church House). E se sul fronte interno è praticamente guerra fra Johnson e gli altri partiti (con dimissioni della leader dei conservatori scozzesi Ruth Davidson), sul piano internazionale la mossa del premier riceve consensi importanti: “Sarebbe molto dura per Jeremy Corbyn, il leader del Labour, cercare un voto di sfiducia contro il nuovo primo ministro Boris Johnson, specialmente alla luce del fatto che Boris è esattamente ciò che la Gran Bretagna cercava, e dimostrerà di essere un grande. Amo la Gran Bretagna”. A twittarlo è un Donald Trump in vena di endorsement nei confronti di chi, Conte prima e Johnson poi, ha sempre dichiarato di apprezzare. Il punto è che persino la Chiesa d'Inghilterra è scesa in campo per manifestare la propria preoccupazione, con 25 vescovi britannici che si allineano alla posizione dell'arcivescovo di Canterbury e scrivono a Downing Street esprimendo preoccupazione per un'eventuale uscita dall'Ue senza accordo. Un rischio che, a meno di clamorosi assi nella manica, a quanto pare Boris Johnson ha intenzione di correre.