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IndyRef, la Scozia a cinque anni dalla scelta pro-Uk

C'era un'aria particolare cinque anni fa in Scozia, dove i nazionalisti esponevano kilt in tartan più o meno sulle stesse strade in cui altri cittadini tiravano fuori l'Union Jack, tanto per ricordare che la St. Andrew's Cross fa da base alla bandiera del Regno Unito. Un clima tutto sommato sereno per un Paese che si apprestava a un voto potenzialmente rivoluzionario, tanto da scomodare paragoni medievali con Robert Bruce e la piana di Bannockburn del 1314, e capace di rianimare i sentimenti più popolari di uno Stato orgoglioso come quello scozzese che, improvvisamente, si ritrovava di fronte alla possibiltà di tornare a essere una nazione indipendente da un Regno Unito che già ventilava ipotesi di Brexit. Non andò bene per il fronte indipendentista, visto che la linea pro-Uk la spuntò con un discreto margine (55% contro il ​​45%) facendo leva sulle possibili ripercussioni in termini economici e politici che una Scozia lontana dall'amministrazione di Londra avrebbe potuto subire, anche in vista di un futuro (all'epoca ancora lontano) in cui Londra sarebbe stata fuori dall'egida europea. L'allora primo ministro, Alex Salmond, diede le sue dimissioni, chiudendo la più lunga (finora) esperienza al timone della nazione ma mantenendo la parola data agli scozzesi.

Il dopo-IndyRef

Cinque anni dopo, la sensazione è che la situazione non sia cambiata di molto. Anzi, l'idea di un nuovo referendum, per quanto poco attuabile in tempi di Brexit, è tornata più volte a stuzzicare la fantasia dell'elettorato scozzese (nonostante lo scetticismo riscontrato dai sondaggisti), all'epoca ignaro di come e quanto si sarebbe evoluta la querelle dell'uscita britannica dal novero dei Paesi Ue. Il 18 settembre 2014, l'ex ministro Salmond di fatto utilizzò il referendum per testare gli effetti dei sette anni dello Scottish National Party alla St. Andrew's House, uscendo sconfitto ma generando comunque un rafforzamento della tenuta del partito, tanto da aprire la strada a un lustro politico tutto sommato lineare sotto la guida di Nicola Sturgeon (all'epoca sua vice), più prudente ma non meno decisa sul tema indipendenza. In modo meno paradossale, anche la linea conservatrice ha giovato dall'IndyRef, perlomeno sul lungo periodo visto che, alle elezioni del 2016, l'Snp arrivò quasi a doppiare i conservatori, senza contare che un anno prima, alle generali del Regno Unito, la Sturgeon andò a piazzarsi al terzo posto, stabilendo il record di collegi (ben 56) e facendo dei nazionalisti scozzesi il terzo partito alla Camera dei Comuni.

L'avvento della Brexit

Nel 2017, con Theresa May che convoca elezioni anticipate per rafforzare la posizione del governo Tory a Brexit ormai in atto (consultazione popolare effettuata il 23 giugno dell'anno precedente), l'Snp si conferma terzo partito britannico cedendo però qualche seggio ai rivali conservatori, che beneficiano dello slogan “no to IndyRef2” guadagnando 12 seggi proprio nel momento in cui, trascorsi ormai tre anni dal referendum, in Scozia sembrava tornare in auge l'idea di riprovarci con la richiesta d'indipendenza. Tempi forse non ancora maturi in virtù di un sentimento pro-Brexit che, due anni fa, era al massimo del suo carisma, con solo qualche sospetto, senza troppe convinzioni, che, di lì a poco, avrebbe iniziato a suscitare più di qualche dubbio. Colpa di una tornata elettorale non proprio favorevole ai Tory, ai quali serve l'appoggio del Dup per spuntarla sui laburisti, e di una trattativa con Bruxelles che presenta ancora troppi nodi da sciogliere, primo fra tutti quello sul backstop irlandese, che vede spettatori interessati proprio gli unionisti nordirlandesi, nuovi alleati della premier.

Prosegue lo stallo

In tutto il panorama politico britannico del dopo IndyRef, va notato come cinque anni di fermento a Westminster non abbiano ancora chiarito, come evidenzia la Bbc, un punto considerato cruciale dal National Party, ossia le reali motivazioni della disparità fra il voto scozzese e quello complessivo della Gran Bretagna al referendum del 2016, quando addirittura il 62% dei votanti al di sopra del Vallo scelse di barrare la casella del Remain. Un vuoto che, a distanza di un lustro dall'IndyRef, rappresenta un'incognita più grande del sentimento indipendentista che pure continua ad aleggiare sulla politica di Scozia, tanto che la stessa Nicola Sturgeon, nel giorno del quinto anniversario, ha fatto sapere di “essere in Germania, in lotta per un futuro dell'Unione europea che potremmo perdere perché non siamo indipendenti”, ribadendo che “il futuro della Scozia appartiene alle mani scozzesi”. Dichiarazioni che cozzano con il più recente sondaggio effettuato fra l'elettorato che, come rilevato, solo in minima parte sarebbe favorevole a un nuovo referendum. Va inoltre considerato che, ora come ora, l'urgenza della questione Brexit rischia di decentrare l'attenzione da qualsiasi altra incombenza politica il che, vista la linea di Sturgeon che preme per avere un IndyRef sul modello del 2014 (quindi con avallo di Londra, tanto per non ripetere esperienze tipo Catalogna), posticiperebbe a data da destinarsi qualsiasi discorso concreto su un possibile ritorno al voto. Rimandando ulteriormente ogni chiarimento, necessario soprattutto agli scozzesi, sulla loro reale volontà, vista la nube che ancora si staglia su un Paese tuttora orientato sull'europeismo ma scettico su uno sganciamento totale dalle mani di Londra. Roba che ai tempi di Bannockburn non ci sarebbe stato nemmeno da discutere. Ma quella era davvero un'altra epoca.

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