Non solo violenza ma anche una forte componente etnico-ideologica che rende la regione del Sahel uno dei quadri regionali più complessi del continente africano. Dai sanguinosi scontri tribali in Mali, fomentati dai focolai jihadisti, fino all’ormai perenne conflitto in Libia, la fascia di territorio fra il Mediterraneo e il Sahara continua a essere al centro di una forte escalation di violenza, fra guerre e sottoguerre che frammentano la regione su un piano sia politico che territoriale. Il tutto in un contesto di estremo disagio ambientale, portato da una grave siccità e dalle cosiddette “battaglie per l'acqua”, violenti scontri tra fazioni, rivali e non, fomentati proprio attraverso le rivendicazioni di pozzi o territori. Interris.it ne ha parlato con Stefano Silvestri, consigliere scientifico e direttore editoriale dell'Istituto Affari internazionali (Iai).
Dottor Silvestri, la regione nordafricana, oggi come oggi, si trova di fronte a una sfida estremamente impegnativa, tra violenti scontri etnici e altrettanto forti rivendicazioni da parte di gruppi territoriali che alimentano numerosi conflitti. Il tutto, in un contesto ambientale che fa i conti con le difficoltà portate da siccità e influenze ideologiche… Che situazione abbiamo oggi nel Sahel?
“È una situazione estremamente complessa perché c’è un incrocio di tensioni tribali di varie etnie o gruppi e di tensioni politiche. E c’è ovviamente l’interferenza di altri Paesi come gli Emirati Arabi, la Turchia, la Russia che stanno intervenendo all’interno di questi conflitti cercando di favorire l’una o l’altra parte, conducendo quasi delle guerre per intermediazione, in cui gli stessi gruppi terroristici riescono a trovare degli “sponsor”, perché finiscono per appoggiarsi ed essere in qualche maniera utili all’uno all’altro. È purtroppo una situazione tipica, che si rileva anche in Siria e che non promette nulla di buono: il punto è che è molto difficile che qualcuno, ad esempio in Libia, riesca a vincere, il che porta a una sorta di guerra permanente nella regione, che viene poi alimentata a sua volta dagli altri conflitti: quello in Mali con i Tuareg, quelli in Nigeria con Boko Haram e così via… Per risolvere questo quadro complesso ci vorrebbe una maggiore solidarietà e capacità di intervento da parte delle forze esterne, per cercare di portare a un accordo. Questo però finora non si è verificato. È difficile che riusciamo a garantire la pace a partire dai singoli combattenti o dai singoli gruppi se, nello stesso tempo, non cresca l’influenza delle potenze esterne”.
In questo quadro, possono inserirsi anche delle “sottoguerre”, come la battaglia per l’acqua o per la demarcazione territoriale?
“Sì, queste sono guerre che si suddividono in sotto-battaglie: spesso sono schermaglie che spesso si contendono il controllo di un territorio, il controllo di un pozzo d’acqua o di petrolio. Siamo a una frammentazione del quadro strategico che, naturalmente, complica la situazione perché distrae tutte le varie forze, le spezzetta sul territorio e impedisce la creazione di un consenso nazionale o anche semplicemente il prevalere di una fazione sull’altra. In realtà è questo il problema: in Libia, ad esempio, Haftar è il contendente con la milizia più forte ma non forte abbastanza per controllare tutto”.
In sostanza, nella regione si vive un momento di stallo prolungato, che presta il fianco a una frammentazione difficilmente conciliabile se non con un deciso intervento esterno…
“Si finisce appunto per creare un conflitto permanente, possono esserci rinforzi da una parte o dall’altra ma conquistare il territorio è difficile. Da parte dell’Occidente sarebbe anche possibile farlo ma questo non porterebbe alla pacificazione. In realtà, a sussistere tutti gli interessi opposti che andrebbero a finanziare i terroristi, i vari gruppi come succede in Iraq, in Siria o in Yemen. C’è questo andamento da guerra perpetua che, a mio avviso, è dovuto essenzialmente alla difficoltà di pareggiare gli equilibri fra le potenze perché con il parziale ritiro americano e anche la fatica, la stanchezza americana per questo tipo di conflitti ad esempio in Afghanistan, ha lasciato libero il campo a una serie di potenze minori che hanno ognuno il proprio disegno strategico: la Turchia cerca di diventare un Paese di influenza nel Medio Oriente ma deve fare i conti con Arabia Saudita e Iran, poi c’è l’inserimento della Russia, essenzialmente per avere una posizione di influenza sul Mediterraneo orientale, dove sono stati scoperti giacimenti di petrolio e gas che potrebbero fare concorrenza al gas russo. C’è una confusione di interesse e una molteplicità di strategie che si scontrano fra loro. La mancanza di una chiara potenza dominante crea questo tipo di situazione. Al momento ci si trova in una situazione di ricerca di nuovi equilibri, che saranno però difficili da trovare e che potrebbero portare – e stanno già portando – a guerre regionali per ‘procura’, come quelle in Siria, Libia e Yemen e che potrebbero portare a scontri diretti anche molto pericolosi”.
In zone particolarmente calde sul piano degli scontri etnici, come in Mali dove gli scontri fra Fulani e Dogon sono sempre più violenti, l’influenza jihadista potrebbe fomentare scontri ideologici sfruttando difficili contesti ambientali, come la siccità?
“Sì, in realtà stanno già fomentando un tentativo di dividere il Mali, giustificato su base ideologico-religiosa, che non è riuscito grazie all’intervento francese. A mio avviso, i movimenti terroristici non sono poi così forti: ci sono segnali di indebolimento qua e là ma se non c’è una strategia interna e unitaria, potranno poi recuperare forza”.