È avvenuto in Cina il mese scorso un incontro informale tra Giappone e Corea del Nord per discutere sul punto della nuova inchiesta promessa da Pyonyang sulla sorte dei cittadini giapponesi rapiti negli anni ’70-’80 da agenti del regime dei Kim, secondo quanto diffuso oggi dal quotidiano nipponico Yomuri Shinbun. Per la parte giapponese ha preso parte il direttore del Dipartimento affari asiatici del ministero degli Esteri nipponico, Jun’ichi Ihara, che ha il compito di mediare sulla questione dei rapimenti. Nel vertice, Tokyo ha chiesto alla controparte nordcoreana di accelerare nell’inchiesta, da tempo su un binario morto, dato che la nuova indagine è stata concordata a luglio scorso e le due parti si sono date un anno. Tuttavia a settembre Pyongyang ha chiesto una proroga e a dicembre ha affermato che “non sono state rinvenute prove oggettive”.
La vicenda è piuttosto complessa e antica. Alla fine degli anni ’90 Tokyo scopri che alcuni suoi concittadini erano scomparsi sul territorio giapponese e in Europa, erano in realtà stati rapiti da agenti nordcoreani. Per essere usate per addestrare le spie del regime alla lingua e al modo di vita giapponese. L’impero del Sol Levane ne avrebbe accertati 17, mentre nello storico vertice del 2001 il defunto Kim Jong II, allora dittatore della Corea del Nord, ne ha ammessi solo 13. Di questi 5 sono stati restituiti, gli altri sono stati dati per morti
La questione è particolarmente emozionale per i giapponesi, in particolare il rapimento-simbolo della 13enne Megumi Yokota, data per suicida dal regime coreano, esito non confermato da nessuna prova definitiva. Lo steso Shinzo Abe ha legato una buona parte della sua carriera politica alla soluzione della vicenda dei rapiti.