Diecimila chilometri, sedici Paesi e 360 giorni di marcia per ribadire il concetto universale della convivenza pacifica fra i popoli e le nazioni, fatta di dialogo, tolleranza e rispetto dell'altro. Un obiettivo importante e uno sforzo non indifferente per chi si unirà alla Jai Jagat, la Marcia mondiale per la Giustizia e la pace, in partenza da New Delhi e diretta a Ginevra, dove giungerà il 25 settembre del 2020. Innanzitutto un percorso ideale: perché è vero che, come la storia dell'uomo ha insegnato, le idee camminano se qualcuno assume su di sé l'onere di farle proprie, di renderle vive e di realizzarle in nome di chi le ha professate, anche a costo della propria vita. Ma è anche vero che nel mondo si continua a combattere, ad anteporre l'utilizzo delle armi e dell'odio come strumenti di morte e di disprezzo reciproco. Per questo il messaggio della Jai Jagat vede la sua declinazione perfetta nell'esempio perpetuo di chi fece della nonviolenza lo strumento di liberazione del proprio Paese, oltre che una filosofia che avrebbe costretto un mondo diretto verso una delle sue epoche più buie a fare i conti con le conseguenze della propria follia. E non fu certo una via facile quella di Mahatma Gandhi, la “Grande anima” che rivoluzionò il pensiero dell'uomo attraverso il satyagraha e pose l'Impero britannico di fronte a un'inaspettata resistenza morale, che sceglieva la forza di volontà e la protesta pacifica per rivendicare la propria libertà, laddove – come la storia aveva insegnato – la conquista di tali diritti parlava quasi sempre la lingua della lotta armata.
Il satyagraha
Quando Gandhi nacque, il 2 ottobre di 150 anni fa, l'attuale Stato indiano del Gujart nemmeno esisteva. Perlomeno non di fatto. Quel gruppo di casette a ridosso dell'Oceano Indiano, Porbandar, faceva parte del Raj britannico, una parte, come il resto della grande Penisola, del glorioso impero di Gran Bretagna. Era idealizzata l'India, lontana e affascinante per chi viveva nel grigiore dalla City: c'era chi fantasticava sull'esotico Seeonee, chi scriveva romanzi ambientati nelle sue giungle, il Crystal Palace del 1851 magnifica le meraviglie delle Indie d'oltreoceano, raffigurando un affresco sbiadito di una cultura millenaria, assaporando in modo effimero quel gusto tropicale che avvolgeva una colonia fatta di culture e tradizioni, di religioni e sapienza ancestrale. Gandhi matura in un contesto coloniale, parte per l'Inghilterra come Abdul Karim, Srinivasa Ramanujan e altri indiani, studia a Oxford e pratica come avvocato in Sudafrica edificando, tassello dopo tassello, quello che sarebbe stato il suo pensiero di vita, la sua filosofia satyagraha. E sarà itinerante anche la diffusione del suo pensiero: attraverso l'India di inizio Novecento, poi nella fervente attività politica del Congresso nazionale indiano, con il quale iniziò la stagione della non-cooperazione nonviolenta, stimolando l'orgoglio della sua terra puntando sull'autosufficienza, incontrando anche brusche cadute, come i linciaggi di Chauri Chaura. Un percorso di maturazione che riguardava anche quel popolo su cui Gandhi aveva puntato, vedendo in lui la vera forza in grado di elevare l'India al suo rango di Paese libero.
Una maturazione comune
L'insegnamento del Mahatma resterà una pietra miliare del mondo che sarebbe venuto dopo quel 30 gennaio del 1948, quando un fanatico hindù lo uccise con un colpo di pistola, ricevendo per questo una condanna a morte. Anche per questo Gandhi si era battuto, per tracciare non solo la linea della nonviolenza come migliore arma in possesso delle masse ma anche per indicare la via del perdono reciproco come principale atto di fratellanza e di convivenza: “Ci sono molte cause per le quali sono pronto a morire – scrisse -, ma nessuna per cui sono pronto ad uccidere”. E la potenza del suo messaggio, in grado di attraversare le epoche, la sua maturazione la sta in un certo senso ancora vivendo: perché la Jai Jagat, una nuova Marcia del Sale da New Delhi a Ginevra, attraverserà il mondo occidentale, costringendolo a guardare verso di lei e all'orizzonte alle sue spalle, dove chi avanza le proprie rivendicazioni continua a fare i conti con la repressione violenta. Perché è attraverso il pensiero itinerante che le idee possono viaggiare e confrontarsi con altre idee, dando vita a un'unica grande visione di un mondo in cui dialogo e tolleranza abbiano la meglio sulla cultura dell'odio. Un richiamo costante in un certo senso: per capire che l'apprendimento di un concetto come la nonviolenza è un percorso che richiede una sua piena consapevolezza ma anche per ricordarci che è con l'impegno comune che è più facile applicarlo. Lo ha insegnato Gandhi ai suoi, a noi lo avrebbe insegnato la storia dopo di lui.