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Filippine, i ribelli musulmani attaccano il penitenziario di Kidapawan: oltre 150 evasi

Militanti islamici hanno attaccato la prigione di Kidapawan, nel sud delle Filippine, favorendo l’evasione di oltre 150 detenuti. L’audace attacco è stato condotto intorno all’una di notte da un centinaio di uomini armati che hanno preso d’assalto il penitenziario, 50 chilometri a ovest di Davao, la principale città dell’isola meridionale di Mindanao.

Gli armati hanno hanno ingaggiato una battaglia durata oltre due ore con gli agenti della sicurezza, che erano in numero decisamente inferiore, tanto che una delle guardie ha perso la vita nello scontro a fuoco.

Secondo le autorità locali, l’attacco è opera di una fazione scissionista del Fronte Moro di liberazione nazionale. Si tratta del più grande movimento armato islamico nel Paese, con il quale il governo di Manila è impegnato attualmente in negoziati di pace. “Hanno cercato di liberare i loro compagni in stato di detenzione”, ha dichiarato alla Abs-Cbn uno dei sorveglianti, Peter John Bonggat.

Almeno 158 detenuti hanno approfittato del caos per darsi alla macchia; non è chiaro quanti di essi avessero legami con i combattenti islamisti che hanno attaccato la prigione, ma sei degli evasi sono stati uccisi. In tutta la zona, inoltre, è stata lanciata una massiccia caccia all’uomo per rintracciare gli altri.

Non si tratta del primo attacco islamista, minoranza religiosa dell’arcipelago – le Filippine sono a maggioranza cattolica, unico Paese dell’area – molto agguerrita ed estremizzata. La vigilia di Natale un ordigno era esploso al di fuori del santuario del Santo Nino a Mydsayap, nella provincia di Cotabato del Nord, sull’isola di Mindanao, ferendo 18 persone, tra cui un ufficiale di polizia che era a guardia dell’edificio.

La legge che l’ex presidente Benigno Aquino jr. aveva contribuito a delineare un anno fa non è stata approvata dal Congresso; dunque, la questione di un accordo definitivo che sancirebbe l’autonomia della regione musulmana nelle Filippine, è rimasta sospesa in un limbo che dura tuttora.

La Chiesa e le istituzioni sperano che il processo di pace possa concludersi grazie all’intervento del nuovo – e controverso – presidente, Rodrigo Duterte. Che però, in questi primi mesi di mandato, ha concentrato la politica interna alla lotta al narcotraffico, applicando metodi controversi – e condannati dalla Chiesa e dalle ong umanitarie – come le esecuzioni sommarie dei tossicodipendenti e presunti trafficanti.

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