I Balcani tornano a ribollire dopo essere stati “dimenticati” dalle cronache internazionali per diversi anni, nei quali le Repubbliche formatesi dopo la disgregazione della Jugoslavia hanno tentato, piuttosto vanamente, di valorizzare il proprio potenziale geopolitico e di migliorare la propria condizione economica, mai del tutto decollata dopo i gravissimi danni arrecati da tre conflitti sanguinosissimi nel corso degli anni ’90.
La lunga crisi
Le difficoltà endemiche delle economie balcaniche sono state corroborate dallo smembramento politico di una regione che, nella sua configurazione unitaria, era riuscita ad assurgere al ruolo di ago della bilancia degli equilibri internazionali. Ogni riferimento all’epoca titina non è per nulla casuale: dopo decenni di relativo benessere, Croazia, Serbia, Bosnia e Slovenia sono progressivamente scomparse dai radar degli investimenti, dello sviluppo e della buona politica. L’ingresso nell’Ue, per alcune repubbliche, non è riuscito ad incidere considerevolmente sull’affermazione economico-politica delle stesse, mentre per altre il miraggio occidentale rimarrà, molto probabilmente, una chimera. Le proteste che stanno invadendo Belgrado e Tirana segnano le temperature bollenti di un termometro politico che da tempo sembra essere sfuggito da un attento monitoraggio.
Democrazia a rischio
Continuano, infatti, a riversarsi per le strade della capitale serba i manifestanti, sotto lo slogan “#1od5miliona”, ossia “il primo di cinque milioni”, movimento popolare antigovernativo così ribattezzatosi dopo l’infausta dichiarazione del presidente serbo Aleksandr Vučić: “Non ascolterò le richieste dei dimostranti neanche se fossero in 5 milioni”. La stampa europea ha subito fatto notare il progressivo deterioramento degli istituti democratici serbi, con il partito di Vučić (SNS) sempre più padrone del parlamento e sempre meno clemente con oppositori e giornalisti. La questione non è soltanto politica: vero è che dai tempi delle proteste contro Milošević i serbi non scendevano in massa per le strade dei principali centri del Paese, ma a stremare la popolazione è principalmente la crisi economica, un tunnel senza fine per un Paese ancora fortemente divaricato tra i suoi aneliti filorussi e le sue esigenze targate Unione Europea. Il presidente in carica, eletto lo scorso anno con circa il 55% delle preferenze, ha deluso i serbi, ben abituati a vedere la cosa pubblica gestita dalla famigerata “zona grigia”, ossia quello spazio politico ricavato dall’incrocio inopportuno tra democrazia e dittatura. Non sembra, infatti, che i partiti di opposizione stiano guadagnando consenso dalle azioni dei tantissimi manifestanti che, ogni sabato fino a tarda notte, stanno invadendo le vie di della capitale serba sfidando il rigido gelo balcanico.
Tensioni in Albania
Ma se Atene piange…Sparta non ride. Il premier albanese Edi Rama vive gli stessi giorni difficili del presidente serbo, politicamente in difficoltà per le proteste veementi che, per le strade di Tirana, stanno sfociando anche in atti di violenza. In questo caso, però, le difficoltà economiche albanesi sono state montate a gran voce dall’opposizione, nel classico gioco che vede il partito socialista di Rama (resosi noto nel panorama politico nazionale per essere stato sindaco virtuoso di Tirana, rinnovandola profondamente) opporsi ai democratici del sempiterno Sali Berisha, già capo di Stato subito dopo l’era di Enver Oxa, durante i terribili anni ’90. Nonostante il governo di Rama abbia tentato di resettare il Paese agevolando la creazione di società ed incentivando gli investimenti, le difficoltà endemiche del tessuto albanese rimangono, in sostanza, sempre le stesse: gli oligopoli controllano i principali rami di sviluppo, mentre il contrabbando di droga e l’illegalità permeano le amministrazioni locali. Le liberalizzazioni economiche, intanto, hanno dato un ulteriore impulso al riciclaggio di denaro, per il quale l’Albania detiene il triste primato insieme al Kosovo.
Mire cinesi
Due crisi politiche in due Paesi chiave per l’architettura balcanica come Serbia ed Albania renderebbero ancor più difficile il compito per un’Europa che, impegnata nella quotidiana lotta ai sovranismi di Salvini, Orban e Kaczyński, si è sempre rivelata molto indulgente nei confronti sia di Vučić che di Rama, leader apprezzati in Occidente per la loro apertura nei confronti delle istituzioni comunitarie e per la loro attitudine tendente al libero mercato, nonostante il loro approccio e, soprattutto, il loro passato (come nel caso di Vučić) potrebbero imbarazzare i più ligi sostenitori dell’Ue. Oltre ai comuni esercizi di retorica, Bruxelles sembra non aver mai voluto investire davvero sullo sviluppo delle economie balcaniche, lasciando la regione in pasto alle ambizioni russe, turche e cinesi. Soprattutto Ankara e Pechino sembrano sempre più determinate a colmare i vuoti (tramite fondi di investimento ad hoc, associazioni, camere di commercio ed Ong) lasciati da un processo di normalizzazione ancora pericolosamente insoluto. A tal proposito, il presidente serbo sarà ufficialmente ricevuto a Pechino nel mese di aprile per parlare di Via della Seta ed aprire spiragli inediti nonchè poco rassicuranti per l’Europa: il Dragone ha già poggiato il suo occhio sui Balcani e sul debito pubblico dei suoi Paesi.