Theresa May si accinge a rendere noti i dettagli del “white paper” sulla Brexit. Documento nel quale è condensata la svolta “soft” del divorzio dall'Unione europea per favorire il raggiungimento di un accordo con Bruxelles, che ancora manca. La scelta ha rischiato di mandare in frantumi il governo britannico. In polemica con la premier il ministro della Brexit, David Davis, e quello degli Esteri, Boris Johnson (due falchi della linea dura) hanno lasciato l'esecutivo, lamentando il tradimento della volontà popolare, espressa nel referendum del 23 giugno 2016. Ma è così? Lo abbiamo chiesto a Stefano Riela, docente di politica economica europea all'università “Bocconi” di Milano.
Perché la “soft Brexit” paventata da May ha povocato questo terremoto politico?
“Il piano proposto da Theresa May contraddice quanto affermato dalla stessa premier nel discorso alla Lancaster House di inizio 2017. In quella occasione aveva affermato che la sola Brexit in grado di rispettare la volontà dei cittadini del Regno Unito passava attraverso tre 'no': al mercato unico, all'unione doganale e alla competenza della Corte Ue negli affari britannici. Dunque una 'hard Brexit'. Quanto prodotto venerdì scorso dal governo britannico è, invece, la combinazione di alcuni elementi che tiene insieme aspetti dell'unione doganale, la giurisdizione della Corte Ue e un po' di immigrazione. Il risultato è una finta Brexit e giustamente Davis e Johnson hanno parlato di tradimento della volontà popolare”.
Come mai per Londra è diventata l'unica strada percorribile?
“Si vuole evitare la reintroduzione di controlli tra Eire (che resta nell'Ue) e Irlanda del Nord (britannica). Per scongiurare questo scenario, l'unica soluzione possibile è l'unione doganale e il mantenimento dello stesso regime tariffario adottato dall'Ue. Così facendo, però, la Gran Bretagna perde la possibilità di siglare accordi di commercio in modo autonomo e indipendente con altri Paesi. Tramontano, quindi, tanto l'aspirazione, su cui si era basata parte della propaganda pro Brexit, alla stipulazione di intese unilaterali – ad esempio con gli Stati Uniti – tanto il sogno di un Regno Unito 'capitale' delle ex colonie comprese nel Commonwealth. May, in sostanza, aveva due scelte: più autonomia ma con una reintroduzione dei controlli lungo il confine irlandese o mantenimento dell'unione doganale. Ha optato per questa seconda possibilità, almeno nel breve periodo, in attesa di creare un nuovo modello, tutto da vedere, che preveda due politiche doganali diverse, una europea e una britannica, ma sempre senza frontiere tra le due parti dell'Irlanda. Qui, però, entriamo nel campo dell'incerto. Per cui vorrei soffermarmi su un altro aspetto…”
Quale?
“Quello relativo alla libera circolazione dei beni, altra violazione degli intendimenti iniziali. Si tratta di un tema fortemente caldeggiato dalle imprese, in particolare britanniche. Queste hanno, infatti, tutto l'interesse, sia in qualità di acquirenti che di venditori, ad avere accesso al mercato dell'Europa continentale. May ha proposto una libero commercio per beni e prodotti agricoli, tenendo fuori i servizi. Decisione, questa, con cui si è attirata numerose critiche interne, visto che l'80% dell'economia si basa proprio sui servizi. In realtà, però, non aveva altra scelta…”
In che senso?
“L'Ue è sempre stata chiara nel ribadire che il mercato unico o si prende nel suo complesso non si prende. Non si può scegliere un elemento escludendone altri. Ad esempio non si può dire: 'prendo in servizi ma non l'immigrazione'. Deve, infatti, essere assicurata la libera circolazione di beni, servizi, capitali e persone. Posizione che Bruxelles ha ribadito a Londra non appena sono stati ufficializzati i risultati del referendum del 2016. Quello proposto da May, dunque, non è un mercato unico, ma è limitato, come detto, ai soli beni e servizi agricoli. E cionostante il mantenimento di una qualche forma di libero commercio contraddice la linea della 'hard Brexit'. Non solo: fintanto che la Gran Bretagna resterà nell'Ue continuerà a essere rappresentata in seno agli organi europei, nel momento in cui, invece, l'uscita diverrà operativa Londra diventerà ricettore passivo delle normative comunitarie per quanto riguarda i prodotti commerciati con l'Ue. C'è, infine, la questione relativa alla giurisdizione della Corte europea. La proposta di May la esclude, eppure difficilmente Bruxelles accetterà l'esistenza di un organo terzo chiamato a decidere solo sulle controversie riguardanti gli scambi con il Regno Unito”.
Dopo il rimpasto di governo, ha chiesto ai Tory di restare uniti, agitando lo spettro di un esecutivo laburista guidato da Jeremy Corbyn. Un cambio in corsa al 10 di Downing Street che effetti avrebbe sui negoziati con Bruxelles?
“A parole tutti sono pronti a dar battaglia per veder crescere il proprio consenso politico. La realtà, però, è un'altra: la Brexit è una patata bollente che chiunque avrebbe paura di maneggiare. Mi chiedo: quale modello di uscita dall'Ue può proporre Corbyn per tenere in piedi il tutto? Se eliminiamo le soluzioni intermedie, obiettivamente non percorribili, le opzioni si riducono a due: nessun accordo (quindi l'hard Brexit) o il mantenimento di una parvenza di mercato unico e unione doganale (cioè la soft Brexit).
Nei negoziati Bruxelles sta sfruttando il suo maggiore potere negoziale per imporre le sue condizioni. Crede che mantenendo una linea dura si voglia fare di Londra un esempio per scoraggiare nuove fughe dall'Ue?
“Non serve, non vedo nuove fughe all'orizzonte. E' vero, si è parlato spesso di possibile uscita dall'Unione europea di alcuni Paesi dell'est, come Ungheria e Polonia, ma non credo avverrà. Non gli conviene”.
Si spieghi…
“Il Regno Unito è un contribuente netto dell'Ue. Su questo i 'brexiteers' come Johnson, prima del referendum, avevano ragione: uscire dall'Unione, in termini di bilancio, comporterà un risparmio per Londra, sia pur con numeri più bassi rispetto a quelli ostentati durante la campagna elettorale. Polonia e Ungheria, invece, sono beneficiari netti, danno, quindi, meno rispetto a quanto ricevono dall'Ue in termini di aiuti all'agricoltura, alle regioni povere e altro… Di conseguenza non sarebbero in grado di giustificare economicamente il divorzio da Bruxelles. Aggiungo un'altra cosa: uscire dal mercato unico e dall'unione doganale significa dover trattare da soli a livello internazionale, con un minore peso negoziale rispetto a quello dato dall'unione di 28 Paesi”.
E questo è, forse, anche il motivo per cui Trump è stato uno dei maggiori sponsor della Brexit…
“Esatto. Da un punto di vista matematico il ragionamento del presidente Usa non fa una piega: per una superpotenza è sempre meglio negoziare con uno Stato piccolo e debole che con una federazione di Paesi come l'Unione europea”.
La nazionale inglese ha sfiorato la finale a Russia 2018. Lo spirito patriottico generato da un'eventuale vittoria del Mondiale di calcio avrebbe potuto far tornare alla ribalta il “leave”, oggi in calo rispetto al “remain” secondo i sondaggi che monitorano il sentimento popolare circa la scelta compiuta nel 2016?
“Potenzialmente sì. Mi preme sottolineare, però, che un argomento così rilevante come la partecipazione del Regno Unito all'Ue non può essere lasciato alla volatilità della natura umana. Ai tempi del referendum pluripremiati docenti britannici ammisero di non essere in grado di dare un voto sulla Brexit. Oggi capiamo che tanti elementi non erano chiari neanche allora. L'argomento era troppo delicato e complesso per essere trattato con lo strumento della democrazia diretta. L'Ue non è nata per referendum ma con l'assunzione di responsabilità in prima persona da parte dei leader politici europei”.