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Corbyn, la caduta del leader ombra

Se dal voto britannico viene fuori un Boris Johnson formato superstar, c'è anche chi rischia di essere investito dall'onda anomala dell'insuccesso. A exit poll praticamente ancora in corso, è ormai certificato il trionfo dei conservatori e la disfatta epocale dei laburisti, che cedono 71 seggi e scendono sotto i 200 in Parlamento. Un tonfo che rischia di trascinare a fondo il suo leader, Jeremy Corbyn, che da possibile alternativa all'incerto governo conservatore passa nell'arco di una notte a figura enigmatica della politica britannica, innanzitutto per il suo stesso partito. Il tracollo dei labour significa sostanzialmente due cose: che la strategia di Corbyn non ha funzionato e che i troppi dubbi legati alle sue posizioni avevano più di una ragion d'essere. E quando ancora le schede erano in fase di spoglio, all'interno della sinistra inglese era già partito il processo verso un leader sul banco degli accusati per le sue posizioni altalentanti sul tema più importante, quello della Brexit, che a detta di molti avrebbero contribuito ad allontanare gli elettori dall'alternativa laburista.

Incertezza

In fondo, l'approssimativa presa di posizione sul tema dell'accordo di uscita era stato motivo di intemperanze già diversi mesi fa all'interno dei Lab, quando in sella a Downing Street c'era ancora Theresa May e la prospettiva di un'elezione anticipata era ancora vista con diffidenza da entrambi gli schieramenti. Dall'accusa di una Brexit troppo morbida rivolta all'ex premier a quella di un accordo non approvabile nei confronti di Johnson, Corbyn ha finito per attestarsi sulla linea del secondo referendum, prediligendo promesse strettamente sul piano interno (il famigerato red book) per la sua breve campagna elettorale. A posteriori, non una grande idea forse, in un contesto in cui la Brexit viene vista ormai quasi in termini di esasperazione dai cittadini britannici (che di tornare al punto di partenza hanno dimostrato di averne tutt'altro che voglia) e, al contempo, una forma di incertezza troppo grande per poter conferire fiducia a un progetto di nazionalizzazione a lungo termine e, addirittura, all'impegno a favore del Sistema sanitario nazionale. In questo senso, la strategia di Johnson è stata vincente, con la promessa di risolvere innanzitutto lo psicodramma Brexit per poi assemblare man mano tutte le tessere del puzzle.

Strategia sbagliata

L'insuccesso di Corbyn ha in pratica ufficializzato la scarsa volontà dei britannici di tornare a un referendum che, oltre a far salire le quotazioni del remain, avrebbe potuto significare ulteriori mesi di estenuante trattativa, nell'incognita praticamente totale sul futuro del Paese. A questo, i sudditi di Sua Maestà hanno preferito la via più lineare, confermando la fiducia a Johnson e augurandosi che l'affare Brexit vada presto in porto per poter finalmente tirare il fiato. Del resto, anche il grande successo ottenuto dagli indipendentisti scozzesi (55 seggi su 59, quasi un record) ha confermato lo scetticismo sempre maggiore verso un processo di uscita dall'Ue che, da importante scatto di autorevolezza da parte del Regno Unito, si è via via trasformato in una sfiancante serie a puntate che, come ulteriore variabile, potrebbe riservare un nuovo tentativo della Scozia di chiamarsi fuori dalla centralità di Londra. A Corbyn viene contestato dai suoi di non averlo capito, restando su posizioni mai del tutto chiare e arrivando a scontentare un po' tutte le branche del suo partito, come lui stesso aveva contestato alla vecchia rivale May: “Non ho mai immaginato che potessimo scendere sotto i 200 seggi. Questo è Corbyn”, commenta malinconico l'ex ministro Alan Johnson. Un modo, forse, per dire implicitamente che il processo è iniziato.

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