L'Italia si affaccia al mondo multipolare e lo fa dalla porta principale, tramite quella Via della Seta che dovrebbe collegare le ambizioni della Cina a quelle del continente europeo. Su Roma, infatti, pende l’asse dell’assetto geopolitico futuro: Pechino necessita di uno sbocco sul Mediterraneo per poter fornire un terminale idoneo ad un viatico costellato di progetti infrastrutturali di portata mondiale. Da Pechino fino all’Africa e all’Europa mediterranea, sia via terra che via mare, l’iniziativa varata da Xi Jinping nel 2013 sta coinvolgendo nel progetto tantissimi Paesi interessati al transito delle merci cinesi sul proprio territorio attraverso il finanziamento diretto di opere che potrebbero effettivamente ampliare il volume d’affari di diversi snodi commerciali sia in Asia centrale che in Europa. La partita, inutile dirlo, si sposta sul piano geopolitico, dal momento che la Cina sta penetrando con sempre più aggressività nelle sfere di influenza tradizionalmente di marca euroatlantica: già a più riprese funzionari della Casa Bianca e dell’Unione europea hanno espresso un nemmeno tanto velato disappunto riguardo una possibile partecipazione italiana al progetto.
Recentemente anche il politologo statunitense Edward Luttwak ha parlato di “alto costo politico e diplomatico” pagato da Roma, capace di alterare pesantemente gli equilibri con Usa, Gran Bretagna, India e Giappone. Da contraltare, le dichiarazioni dell’ambasciatore cinese Li Ruiyu, che è entrato nello specifico anticipando l’interesse concreto di Pechino e delle sue aziende per i porti italiani di Trieste, Genova e Venezia. La rotta balcanica, infatti, risulta essere quella prioritaria per il Celeste Impero, presente ormai in maniera capillare negli scambi del bacino dell’Egeo, nonché seriamente intenzionato ad investire nei Paesi ex-jugoslavi. Non a caso, i porti di Trieste e Venezia sono stati valutati come “complementari” e non alternativi al Pireo di Atene, con il nord Italia protagonista dei processi di sdoganamento delle merci in qualità di terminale europeo. Al momento, la Belt and Road Initiative (Bri) cinese ha portato allo sviluppo di circa 900 nuove infrastrutture in 60 Paesi coinvolti, creando una cinghia di collegamento eurasiatica in grado potenzialmente di avere un impatto fortissimo sulle dinamiche commerciali del Pianeta.
L’Occidente, infatti, dopo le accese discussioni che hanno fortemente ridimensionato i progetti di marca nordamericana Ttip e Ceta, guarda con riluttanza la presa di posizione del governo gialloverde, sempre più vicino a posizioni troppo “eterodosse” per le cerchie atlantiche in materia di politica estera. La Cina coglie la palla al balzo per proiettare le sue aspirazioni sul Mediterraneo. Ma cosa spinge Pechino a virare su degli investimenti diretti sul suolo europeo? Le recenti schermaglie commerciali con Washington hanno contribuito a “svegliare” il Dragone: 22 miliardi di investimenti nel continente europeo solo nel 2018, il 54% dei quali nel settore dei trasporti e della logistica, con Gran Bretagna, Svezia e Francia a guidare la classifica dei Paesi più investiti dalla pioggia di yuan cinesi, seguiti da Italia e Germania. La sfida di Pechino in Europa consiste nel variare e nell’alzare il livello qualitativo dei suoi investimenti, cercando risposte alle nuove domande che stanno emergendo nel Celeste Impero, con una società lavoratrice in evidente trasformazione, pronta ad entrare in una fase di post-sviluppo.
Nella guerra commerciale sino-americana, l’Italia diviene tassello decisivo per la definizione di un equilibrio globale; d’altro canto Roma intende rivalutare le proprie ambizioni puntando forte su una rinnovata difesa dell’interesse nazionale attraverso una posizione di apertura verso diversi poli di potere alternativi. A che prezzo? Al netto del disappunto americano, il pericolo rilevato riguarda la straordinaria capacità di penetrazione dimostrata da Pechino nell’infiltrarsi nei destini economici dei Paesi che avvicina. L’esperienza di diversi Stati africani ne è la prova, considerando anche quanto la presenza di Pechino si faccia sempre più insistente ad Atene e Belgrado. Sembra proprio che la Cina abbia una speciale predilezione per i Paesi fortemente indebitati. A buon intenditor…