In centinaia si sono radunati, già a partire da ieri sera, attorno al memoriale di Slavutych, a una cinquantina di chilometri dall'ex centrale nucleare di Chernobyl, come accaduto ogni anno negli ultimi 33. Una consuetudine ormai, uno dei giorni zero della cultura occidentale visto che, quel 26 aprile 1986, buona parte delle convinzioni acquisite fin lì sull'energia nucleare se ne andò con l'esplosione che devastò la centrale, aprendo alle radiazioni atomiche la via per l'Europa. Dieci giorni di rogo del reattore numero quattro, saltato in aria durante un test di sicurezza che avrebbe dovuto precedere lo spegnimento, rilasciando nell'aria sostanze radioattive che viaggiarono per tutto il continente (il primo allarme, oltre che in Ucraina, suonò in Svezia, dove furono riscontrati picchi altissimi di radioattività solamente un paio di giorni dopo il disastro). Le conseguenze furono devastanti: numero di vittime dirette mai stimato completamente (almeno una cinquantina fra personale e soccorritori), oltre 4 mila casi di tumore alla tiroide attribuibili alle radiazioni, devastazione della vicina pineta (che diventò poi nota come “Foresta rossa”) ed evacuazione di 350 mila persone in un raggio di 30 chilometri, 47 mila nella sola città di Pryp''jat che venne completamente abbandonata. Le autorità sovietiche impiegarono qualche giorno prima di rendersi conto della gravità di quanto era accaduto, Gorbacev non fece dichiarazioni fino al 14 maggio. Il 28 aprile l'evacuazione di Pryp”jat era già iniziata, avviata da un cadenzato annuncio via altoparlante.
Dopo il disastro
Oggi, nel ground zero ucraino, la cosiddetta “Zona di esclusione”, resta il sarcofago di cemento e metallo che ricopre l'ex reattore numero quattro, dal quale partì il disastro, innalzato da circa 600 mila “liquidatori” sovietici chiamati a ripulire l'area dell'esplosione e a creare la struttura di protezione attorno al focolaio. Quella attuale, il New safe confinemente (Nsc), è stata ultimata non più di due anni fa, a fronte di un progetto di ammodernamento proposto già nel 1997. Tutto intorno, il mondo sembra essersi fermato a 33 anni fa: a Pryp”jat le tavole sono ancora apparecchiate, la ruota panoramica del luna park gira a ritmo del vento, le strade sono vuote ma ancora praticabili, bottiglie e oggetti di qualunque tipo sono ancora disposti nei loro luoghi originari, la natura e gli animali vi abitano al posto delle persone, avendo comunque lasciato intatto la gran parte dello scheletro della città. Qui, così come a Pryp''jat, ancora non si può accedere, salvo che con speciali permessi e sottoponendosi a tutte le misure preventive necessarie, prima di entrare e di uscire. Una zona tuttora off limits, nonostante la selva della Foresta rossa sia in buona parte rifiorita e l'emissione di radiazioni quasi del tutto ridotto, anche se non abbastanza da consentire all'area circostante di tornare a vivere.