Quando il processo politico sembrava avviato a tracciare una prima road map per elezioni nazionali, i cannoni hanno ripreso a colpire attorno a Tripoli. Il maresciallo Khalifa Haftar, ex generale di Gheddafi e uomo forte della Cirenaica, ha lanciato un'offensiva che rischia di pregiudicare gli sforzi compiuti dalla comunità internazionale per risolvere la crisi. Ne abbiamo parlato con Lorenzo Marinone, responsabile del desk per il Medio Oriente e il Nord Africa del Centro studi internazionali (Cesi)
Siamo ancora in una fase di schermaglie militari o possiamo già parlare di guerra civile?
“E' difficile dirlo. La situazione è molto fluida, solo nelle ultime ore i due principali schieramenti starebbero mobilitando i reparti migliori. Una cosa, però, è certa: è stato oltrepassato il punto di non ritorno”.
In che senso?
“L'offensiva su Tripoli lanciata da Haftar è una sorta di 'All in', nel senso che ha, contestualmente, un valore militare e politico. Haftar, non dimentichiamolo, è stato uno dei principali referenti del processo di riconciliazione della Libia. Un attacco a 10 giorni dalla conferenza di Ghadames, su cui l'Onu ha lavorato per un anno inisieme alle parti, e proprio mentre nella capitale si trova il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, porta con sé un messaggio chiaro: al maresciallo non interessa il processo politico, vuole prendere il potere militarmente. Questo non potrà che avere delle ripercussioni…”
Quali?
“Dopo gli accordi di Skirath si è lavorato per tre anni sul processo politico, cercando di tenere a bordo anche Haftar, legittimamente ma fra mille difficoltà. Ora che decide di lanciare un attacco, come si può pensare di tornare a parlarsi in breve tempo facendo finta di niente? E, soprattutto, chi potrebbe assicurare alla parte di Serraj, ai tripolini, che dopo essersi di nuovo seduti a un tavolo Haftar non tenti un nuovo colpo di mano? L'Onu, i Paesi europei o arabi che in queste ore stanno condannando l'assalto sono gli stessi che, secondo Tripoli, non stanno facendo abbastanza per fermare Haftar. Quindi, quale garanzie darebbero?”.
C'è qualche collegamento fra l'attacco delle ultime ore e i combattimento fra milizie a sud di Tripoli della scorsa estate?
“Negli scontri di fine agosto/inizio settembre 2018, Haftar non c'entrava nulla. Si trattava di milizie – in parte legate a Misurata, in parte locali dell'hinterland di Tripoli – tenute fuori dalla capitale e quindi impossibilitate ad accedere a vantaggi finanziari e di influenza politica. La loro azione non aveva alcun fondamento ideologico, volevano semplicemente una fetta della torta. Proprio questi motivi oggi quelle milizie difendono i propri interessi combattendo contro Haftar, credono che aiutare il governo a respingere l'attacco li metterà nelle condizione di poter chiedere benefici”.
Prima ha parlato di 'punto di non ritorno'. Eppure, a campagna militare conclusa, bisognerà decidere cosa fare…
“Attualmente ci sono tre scenari. Il primo è la conquista di Tripoli da parte di Haftar in breve tempo, ma questo può avvenire solo se qualcuno, all'interno della capitale, decide di cambiare casacca consegnandogli, di fatto, le chiavi della città. Il secondo, opposto, è che Haftar venga respinto e costretto a ripiegare verso il golfo di Sirte, in Cirenaica. Il terzo, più probabile, è il consolidamento delle posizioni attuali, con Haftar che guadagna una parte di territorio senza riuscire a conquistare la capitale. Tutte e tre queste opzioni, tuttavia, producono gli stessi risultati…”
Cioè?
“Come vada vada, il processo politico avviato dall'Onu sarebbe un insuccesso. Aggiungo una cosa…”
Prego…
“Sbaglia chi pensa che una vittoria militare di Haftar possa restituire stabilità alla Libia; non si tornerebbe, tanto per capirsi, agli anni di Gheddafi. Oggi sul territorio ci sono centinaia di milizie che non dipendono da flussi di armi centralizzati, ma sfruttano i traffici. Ognuno di questi gruppi militari difende i propri interessi. C'è solo una cosa che li mette d'accordo: il rifiuto di qualsiasi autorità centrale che governi il Paese”.
Parliamo di interessi italiani, questo scenario li pregiudicherebbe?
“Assolutamente sì. Una vittoria di Haftar renderebbe ingestibile la Tripolitania dove ci sarebbe uno stato di guerriglia permanente portata avanti da milizie armate sino ai denti che rifiuterebbero il nuovo leader. Quella è la regione principale della Libia dove passano i traffici: armi, droga ed esseri umani. Se la zona è instabile i flussi ripartono, anche perché i gruppi militari si finanzierebbero ricorrendo proprio a questi mezzi. Di conseguenza si avrebbe, probabilmente, un aumento delle partenze di migranti verso l'Italia e l'Europa. Per non parlare, poi, della sicurezza degli impianti petroliferi che rischierebbero di essere attaccati…”
Uno contesto caotico com'è quello libico di oggi può dare nuova linfa alla jihad islamica?
“Sì. Veniamo da una serie di attentati compiuti sul suolo europeo pianificati o supportati proprio in Libia. Proprio nelle ultime ore l'Isis ha compiuto un nuovo attacco nel Paese nordafricano. Una situazione com'è quella attuale, inevitabilmente, facilita il Califfato. Ciascuno degli scenari analizzati accresce, di fatto, la minaccia terroristica”.
L'attacco anglo-francese del 2011 che portò al rovesciamento di Gheddafi viene letto oggi come una guerra per procura fra potenze occidentali. Oggi non manca chi sottolinea una certa vicinanza fra Parigi e Haftar…
“Sappiamo per certo che Haftar goda del supporto – coperto – di una serie di Paesi, non solo europei ma anche arabi. Un sostegno, probabilmente, anche militare, nonostante l'embargo Onu. Detto ciò credo sia eccessivo dipingere l'uomo forte della Cirenaica come una sorta di marionetta che agisce in base a un'agenda dettata da altri. Vedo questa azione più come l'azzardo di un uomo che voleva imporre un segnale politico mettendo la comunità internazionale davanti a un fatto compiuto, cioè la presa del potere. Nei giorni prima dell'attacco aumentato aveva aumentato i contatti con le milizie di Tripoli, quindi, probabilmente, pensava che ogni porta si sarebbe aperta al suo passaggio. Non è stato così”.
Come legge il ritiro di parte del contingente americano schierato attorno a Tripoli dopo l'attacco? E' solo necessità di difendere le proprie truppe o c'è dell'altro?
“La Libia non è al centro degli interessi strategici americani. E' solo un tassello importante per la sicurezza dell'area. Le truppe schierate nell'area avevano l'obiettivo di contrastare Isis e Al Qaeda, come parte della strategia antiterrorismo degli Stati Uniti. Non solo: Washington, nel teatro libico, ha lasciato ampio spazio agli europei, in particolare all'Italia. Quindi, considerato anche il successivo comunicato con cui Mike Pompeo ha condannato l'offensiva, non vedo in questo ritiro un segnale politico di sostegno ad Haftar”.