E'l'ennesimo day after a Londra, dove la questione Brexit appare ormai alla stregua di una saga a puntate. Nell'ultimo giro di eventi il premier Johnson ha incassato l'ennesima delusione della sua breve carriera a Downing Street ma anche il Parlamento britannico, che ha – implicitamente – bocciato l'accordo strappato in extremis dal primo ministro a Bruxelles, ne esce quantomeno malconcio. E' la quarta intesa che a Westminster rispediscono indietro, segno di una Brexit che, al netto dei premier in carica, sembra convincere sempre meno gli attori in campo, a partire da Londra stessa. Il che rende complicato anche lo studio del piano d'azione: se sulla carta infatti le soluzioni appaiono scontate (rinvio o voto), sul piano pratico si rischia l'ennesimo stallo, anche alla luce della strategia adottata dal premier. Boris Johnson ha preso atto del voto dei Comuni, non prendedolo bene e dichiarando subito che, sul tema del rinvio, non avrebbe fatto passi indietro. No, i termini usati non erano questi ma la sostanza sì. Niente che, a ogni modo, abbia fatto desistere l'inquilino di Downing Street dal seguire le regole: Johnson ha preso carta e penna e a Bruxelles ha scritto, chiedendo la proroga imposta dalla legge paracadute voluta delle opposizioni (evitando di firmrala) ma allegandone un'altra, in cui parla del possibile rinvio come uno sbaglio.
La doppia missiva
Ora come ora la Brexit è in attesa, nel limbo che separa la volontà dell'Europa di darci definitivamente un taglio e quella del premier britannico di chiudere una volta per tutte il capitolo, preferendo quasi affrontare un'onda anomala finanziaria piuttosto che un ennesimo periodo di trattative. Con le due lettere inviate a Bruxelles, in pratica, Johnson ha rispettato la legge britannica mettendosi al riparo dalle offensive delle opposizioni, ma anche ribadito all'Unione europea che in quella lettera lui non si riconosce, ribadendo di fatto la volontà ferma di uscire comunque il 31 ottobre prossimo, deal o no. Un po' perché il suo accordo di fatto non è stato materialmente votato, essendo i Comuni favorevoli (compresi i parlamentari del Dup, furiosi per la questione backstop) all'emendamento-sgambetto dell'ex Tory Oliver Letwin che, in sostanza, ha reso vana qualsiasi votazione obbligando il premier a chiedere un rinvio a priori finché la legislazione necessaria sul post-Brexit non fosse stata messa in piedi. Con le due lettere, Johnson si è garantito un margine, pur ristrettissimo, per riprovarci di nuovo. Lo farà martedì, con poco tempo e tanti ostacoli, e pochissime possibilità di farcela, anche perché quello sarà davvero l'ultimo step prima del 31. A quel punto il rinvio sarebbe obbligatorio, perlomeno per il tempo necessario a indire un nuovo referendum. Quello che ormai chiedono un po' tutti, cittadini e più di metà del Parlamento.