Altro che quarto voto. Il futuro di Theresa May, dopo il naufragio dei colloqui con i laburisti, sembra essere tutt'altro che legato all'esito (in realtà quasi scontato) della votazione in Parlamento sulla nuova bozza di Brexit. Ancor prima che Westminster decida, la premier è incalzata praticamente su tutti i fronti, con una larga fetta di parlamentari (Tory e non) che, nonostante le smentite di Downing Street, le starebbero chiedono di farsi da parte, tralasciando di rischiare l'ennesima bocciatura e lasciare che a occuparsi dell'addio all'Ue sia qualcun'altro. Per alcuni, May è già fuori. O meglio, lo sarà dopo la fine del confronto della Commissione parlamentare 1922, quella dei Tory, incentrata in larghissima parte sul discutere la sfiducia alla premier. Per altri, però, May resta in sella, nel senso che dovrebbe perlomeno avere la possibilità di presentare il suo quarto piano, quello che avrebbe dovuto scrivere a quattro mani con Corbyn e che, invece, sarà nuovamente frutto esclusivo del suo lavoro. Esattamente quello che non volevano i parlamentari. Alla fine, comunque, May ha raggiunto un compromesso: 36 ore di “tregua”, in attesa del vertice di venerdì con sir Graham Brady, il leader della 1922. Da lì, dovrebbe emergere se si arriverà o meno a dama, ovvero al voto.
Dubbi interni
Finora, la questione era capire se la progressiva riduzione dei “no” ai vari piani May fosse un indicatore di crescente positività da parte dei parlamentari. Ora, invece, è tutto più difficile: buttata via, per incomprensioni o per semplice incompatibilità, la possibilità di mettersi d'accordo con quello che sembrava il principale avversario, May si trova a fare i conti con quelli che, a ben vedere, sono sempre stati la sua nemesi. Un profilo che si attaglia perfettamente a quella parte di Tories che, fin dall'inizio, hanno espresso le loro perplessità (per non dire ostacolato) rispetto al metodo con cui la premier aveva deciso di condurre le trattative con Bruxelles. Gli stessi che, ora, stanno tentando il tutto per tutto pur di farla cadere di sella, andando a rivedere il regolamento che la vuole a Downing Street (nonché alla guida dei Tory) fino a ottobre, vista la sfiducia scongiurata nello stesso mese del 2018. Impresa che in passato si è dimostrata tutt'altro che facile, tanto da far progressivamente accantonare l'Ue dal ruolo di pari grado nella vicenda Brexit, traslando il tutto sul Parlamento inglese e sulle varie correnti di pensiero che si sono man mano sviluppate su un tema che, almeno inizialmente, sembrava aver messo d'accordo tutti.
Mossa May
Difficile prevedere chi, in caso di patatrac, andrà a prendere in mano le redini della Brexit. La Bbc presume che in ballo ci siano due nomi grossi, come il segretario degli Interni, Sajid Javid, e quello agli Esteri, Jeremy Hunt. Entrambi pare abbiano chiesto un colloquio privato con il primo ministro ed entrambi, secondo l'organo d'informazione britannico, sarebbero in lizza per rilevare la leadership di partito. A ogni modo, nessuno dei due ha avuto fortuna: May si è rifiutata di incontrarli per andare dalla Regina, attesa dal loro incontro settimanale. La mossa che doveva chiudere la giornata (anche se di sicuro non le ostiltà) e che invece è stato solo il penultimo atto visto che, poche ore dopo, il ministro per i Rapporti parlamentari Andrea Leadsom ha deciso di farsi da aprte per prima. Lei, brexiteers convinta, di obiettivo sembra aver quello attribuito ai colleghi: spodestare May e prenderne il posto alla guida dei Tory.