C'è un candidato democratico a sorpresa per le elezioni presidenziali americane del prossimo anno. Il miliardario ex sindaco repubblicano di New York, Mike Bloomberg è pronto a scendere in campo con i democratici contro il presidente repubblicano Donald Trump. Il 77enne Bloomberg sta preparando i documenti per presentare la sua candidatura alle primarie democratiche in Alabama prima della scadenza fissata dallo Stato.
La fama di centrista
“L'ex primo cittadino della Grande Mela, dal 2001 al 2013, è uno degli uomini più ricchi d'America – riferisce Rainews 24 -. Eletto con il partito repubblicano, lo ha poi abbandonato rimanendo indipendente fino al 2018 quando si è iscritto al partito democratico. Bloomberg è percepito dall’opinione pubblica e dai mercati come un centrista”. Michael Rubens Bloomberg è nato a Boston il 14 febbraio 1942. Imprenditore. Fondatore, proprietario e amministratore delegato della multinazionale Bloomberg. Politico. Già sindaco di New York (2002-2013). Secondo l’ultima classifica della rivista Forbes (aggiornata al 6 marzo 2018), è l’undicesima persona più ricca del mondo, con un patrimonio netto stimato in 50 miliardi di dollari, e cinquantunesima persona più potente Proviene da una famiglia ebraica di ascendenze russe. Figlio di un contabile. “Cresce a Medford, un sobborgo di Boston, studia Fisica e Ingegneria alla Johns Hopkins University. Poi si laurea alla Business School di Harvard nel 1966”, racconta Rinaldo Gianola. “Bloomberg dovette pagarsi gli studi alla Johns Hopkins di Baltimora lavorando quattro anni come parcheggiatore di automobili e mangiando in miserabili taquerie messicane. Il suo primo impiego fu un posto da 'schiavo' presso la casa di Borsa Salomon Brothers: niente stipendio, solo commissioni e centinaia di telefonate a freddo ogni giorno per impallinare clienti sconosciuti”, scisse Vittorio Zucconi. In poco tempo Bloomberg diventa il responsabile per il mercato azionario della Salomon Brothers. Matura un’enorme esperienza sulla contrattazione dei titoli, sull’impiego delle tecnologie per velocizzare le informazioni. Poco prima di lasciare la grande banca d’affari di Wall Street, Bloomberg crea un sistema computerizzato di informazioni, analisi e trasmissione dati. Uno strumento indispensabile per intermediari finanziari, banche, società, mercati. E anche per i mezzi di comunicazione. “Presidente, io posso fare meglio di lei!”. Michael Bloomberg si era spinto troppo avanti quella mattina di settembre del 1981. Nella sede di New York della Salomon Brothers aveva affrontato il suo capo John Gutfreund spiegandogli cosa pensava di lui. Dopo quello sfogo, Bloomberg aveva naturalmente abbandonato la società, ricostruisce Gianola. Grazie all’esperienza accumulata, e a una buonuscita da dieci milioni di dollari, Bloomberg, quando sbatte la porta e lascia le comode poltrone della Salomon Brothers, sa già cosa fare. Bussa alla Merrill Lynch, una delle più importanti banche d’affari del mondo, e propone un sistema informatico per la contrattazione dei bond del Tesoro americano. “Tra sei mesi vi presento il programma: se non siete soddisfatti, non pagherete nulla”, dice Bloomberg. Sei mesi dopo, l’affare è fatto. Anzi, ricorda Giorgio Dell’Arti, la Merrill Lynch, oltre ad acquistare le prime 20 macchinette infernali del geniaccio di Wall Street, sottoscrive il 30 per cento della Bloomberg versando 30 milioni di dollari. Bloomberg, invece di limitarsi a fornire le informazioni, aiuta i clienti a utilizzarle.
I limiti della democrazia
Per la Casa Bianca, dunque, si profila un duello tra miliardari. Linkiesta ha pubblicato uno stralcio del fondamentale saggio del sociologo statunitense Daniel Bell sulla meritocrazia politica e i limiti della democrazia. In una democrazia, secondo Aristotele, le classi inferiori (la maggioranza) domineranno, così le proprietà dei ricchi non saranno al sicuro. Il filosofo riconosceva che i ricchi potessero esercitare un potere di corruzione, tentando altri cittadini ad abbracciare una vita che puntasse ad acquisire ricchezze illimitate (e i piaceri oziosi ai quali la ricchezza dà accesso) a spese del vivere bene (il che aiuta a spiegare perché nel migliore regime possibile proponesse di togliere la cittadinanza ai commercianti) ma non prevedeva la possibilità che fosse la minoranza ricca a trovare modi di avanzare i suoi interessi economici a spese della maggioranza, in sistemi politici democratici nei quali i poveri (teoricamente) hanno più potere politico. I padri fondatori degli Stati Uniti, a prescindere dalle differenze politiche, concordavano con Aristotele sul fatto che il commercio compromettesse la capacità di avere un giudizio politico indipendente.
Se il potere economico diventa potere politico
Per ridurre al minimo il potere della proprietà privata, “la costituzione includeva quel che allora erano titoli di proprietà estremamente limitati per gli elettori e (in netto contrasto con le pratiche di quasi tutti gli Stati) nessuno per i rappresentanti eletti”. I fondatori però temevano l’oclocrazia più che il potere economico dei ricchi, e cercarono di contenere la possibilità della tirannide della maggioranza con istituzioni come quella del collegio elettorale, il Senato deliberativo, e corpi istituzionali non eletti come la Corte Suprema. Una stampa libera avrebbe contribuito a denunciare gli abusi di potere da parte delle élite, ed è possibile che fossero anche stati incoraggiati da quella che sembrava l’alba di un’epoca pluralista “quando un ampio spettro di gruppi sociali, relativamente uguali per potere e influenza, possono soppiantare la contrapposizione tra cittadino povero/ricco che aveva prevalso nelle repubbliche delle epoche precedenti”. Sembrava altamente improbabile, evidenzia bell, che i ricchi potessero esercitare tirannide economica in un sistema democratico basato sulla logica di una persona (o, più precisamente, un uomo bianco) un voto; perciò, i padri fondatori non cercarono di arginare il potere dei ricchi attraverso istituzioni che riconoscessero, affrontassero o riflettessero distinzioni socioeconomiche.
Pericoli imprevisti
Il principale pericolo della democrazia, come Alexis de Tocqueville osservò nel capolavoro del 1835 La democrazia in America, è piuttosto che la maggioranza meno ricca del paese sfrutti il proprio potere politico per espropriare la ricchezza: “In tutte le nazioni del mondo, il maggior numero è sempre stato composto dai nullatenenti o da quelli che possedevano troppo poco per poter vivere discretamente senza lavorare. Dunque il suffragio universale dà veramente il governo della società ai poveri”. Quel che i fondatori non previdero (o temettero), avverte Bell, fu il rapido sviluppo del capitalismo industriale nei successivi due secoli, seguito poi dalle grandi concentrazioni di ricchezza e dall’aumento delle disuguaglianze.
Gli interessi dei pochi, il disagio dei molti
“Oggi, interessi di minoranze solide e organizzate possono in effetti avere la meglio rispetto a maggioranze relativamente senza potere su questioni come la legislazione ambientale, il controllo delle armi, e la regolamentazione delle istituzioni finanziarie – sottolinea il sociologo statunitense -. Dal momento che in genere la gente ha poco tempo o energie per dedicarsi alla politica, piccoli gruppi con forti motivazioni economiche o ideologiche possono esercitare un’influenza sproporzionata nel processo politico, o bloccando il cambiamento che sia nell’interesse comune, o facendo lobbying per politiche che vadano a beneficio soltanto dei loro interessi”. Il problema è ingrandito quando la classe dei più abbienti ha sia un chiaro senso di quali siano i suoi interessi economici, sia la motivazione di difenderli contro gli interessi della maggioranza degli elettori.
Troppo peso al denaro
“L’influenza del denaro nella politica è il flagello di quasi tutte le democrazie contemporanee, e gli Stati Uniti costituiscono forse il caso più estremo”, precisa Bell. Contrariamente alla prosperità condivisa, caratteristica dei decenni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale, nell’ultima generazione la grande maggioranza degli americani è di gran lunga rimasto indietro rispetto a un ristretto segmento della società di superricchi: “Dal 1979 fino alla vigilia della Grande Recessione, l’un per cento più ricco del paese ha ricevuto il 36 per cento di tutti gli incrementi di reddito per nucleo familiare, anche dopo aver tenuto conto del valore dell’assicurazione sanitaria fornita dal datore di lavoro, di tutte le tasse federali e di tutti i benefit governativi. La crescita economica è stata anche più sbilanciata tra il 2001 e il 2006, periodo durante il quale la quota di incrementi di reddito andati all’un per cento più ricco è salita al 53 per cento”.
Il divario di reddito
Questo divario di reddito viene spesso attribuito al cambiamento tecnologico e alla globalizzazione, che premia notevolmente i vincitori, ma lascia dietro di sé molti perdenti: come osserva Charles S. Kupchan: “La fonte primaria delle fortune in declino del lavoratore americano è la competizione globale”. Ma la disuguaglianza negli Stati Uniti è cresciuta in modo costantemente più rapido che in altre democrazie benestanti, e una causa importante, secondo Jacob S. Hacker e Paul Pierson, è una lunga serie di cambiamenti di politiche governative che hanno favorito i ricchi in modo spropositato: attività di lobbying politica da parte del settore delle aziende e quello finanziario hanno portato i funzionari pubblici a riscrivere “le regole della politica americana e dell’economia americana in modi che sono andati a beneficio dei pochi e a spese dei molti”.
Deregulation
Dalle leggi sulle imposte alla deregulation, dalla governance aziendale ai problemi di sicurezza della rete, gli interessi economici hanno esercitato pressioni sul governo affinché mettesse in atto politiche per permettere a chi era già ricco di accumulare una quota sempre maggiore della ricchezza della nazione. “Anche dopo il crollo finanziario del 2008, le banche più colpevoli sono state in grado di continuare a controllare le decisioni di chi formulava politiche e dei legislatori, e il ristretto gruppo di individui che guadagna più di 50 milioni di dollari ogni anno si è quintuplicato dal 2008 al 2009 – puntualizza Bell-. Con la ripresa economica nel 2009-2010, il 93 per cento degli incrementi del reddito sono andati all’un per cento più ricco dei contribuenti”. Forse un macroscopico divario di reddito non deve costituire causa di preoccupazione, anche se la nuova ricchezza è concentrata proprio ai vertici.
I poveri stanno sempre peggio
Dal punto di vista della giustizia, quel che conta davvero è il destino degli svantaggiati: secondo la teoria della giustizia di John Rawls, le disuguaglianze di reddito possono essere giustificate se vanno a beneficio dei meno abbienti. “Negli Stati Uniti, al contrario, i poveri sono divenuti anche più poveri: nel mese di novembre del 2012, il Census Bureau ha riportato che più del 16 per cento della popolazione statunitense viveva in condizioni di povertà, compreso quasi il 20 per cento dei bambini (il livello più alto dal 1993), salito dal 14,3 nel 2009- evidenzia il sociologo statunitense-. E i più poveri dei poveri stanno anche peggio: nel 2011, chi nel paese era in condizione di estrema povertà, a intendere il numero di nuclei familiari che viveva con meno di 2 dollari al giorno prima di benefit governativi, era il doppio del livello del 1996, con 1,5 milioni di nuclei familiari e 2,8 milioni di bambini.98 In breve, il problema non è soltanto che i superricchi stanno divenendo più ricchi, ma anche che i più poveri tra i poveri si stanno impoverendo ulteriormente”.
Ricompense differenziali
Un’altra argomentazione contro le critiche egualitarie è che grandi divari di reddito sono necessari per il progresso economico. L’economista Daron Acemoglu sostiene che il capitalismo spietato negli Stati Uniti consente più innovazione di quanto non faccia la spesa per il welfare in paesi relativamente egualitari come la Svezia: “L’impegno in attività innovative richiede incentivi che arrivano per le ricompense differenziali per tale impegno. Di conseguenza, un divario più ampio tra imprenditori che hanno successo e chi non lo ha aumenta l’impegno imprenditoriale e quindi il contributo di un paese verso la frontiera del mondo tecnologico”.
I benefici al settore finanziario
L’innovazione, avverte Bell, aumenta il tasso di crescita dell’intera economia mondiale, con l’implicazione che “capitalisti teneri” viaggiano gratis grazie al capitalismo spietato degli Stati Uniti (si potrebbe aggiungere che le spese militari smisurate degli Stati Uniti forniscono una protezione agli alleati e consentono loro di spendere di più per il welfare). Ma gran parte dell’incremento del reddito ha dato benefici al settore finanziario e si può indubbiamente affermare che complesse innovazioni finanziarie abbiano arrecato più danni che benefici occultando i rischi a trader, buyer e organismi di regolamentazione, contribuendo in definitiva alla crisi finanziaria del 2007-2008. Inoltre , l’idea che le società nordiche siano meno innovative degli Stati Uniti è controversa, e lo stesso Acemoglu riconosce che gli Stati Uniti possono fornire una maggiore rete di sicurezza in basso, pur permettendo smisurati guadagni ai vertici.101 In ogni caso, la disuguaglianza di reddito non è preoccupante sino al punto da costituire una minaccia per il sistema politico democratico. Negli Stati Uniti gli elettori sono ancora convinti che il loro paese sia ricco di opportunità tanto da far risalire la scala dei redditi anche se la realtà è ben diversa. Gli Stati Uniti sono] meno mobili di quasi ogni altra democrazia industrializzata al mondo. Eppure, per una delle grandi ironie dell’opinione pubblica americana, sono ancora il luogo in cui la fiducia meritocratica arde di più. Dal 1983 un sondaggio CBS/New York Times chiede alla gente: “Pensa che sia ancora possibile in questo paese partire da poveri, lavorare sodo e diventare ricchi?”. Nel 1983 il 57 per cento ha dato risposta affermativa, e nel 2007 la percentuale è salita all’81 per cento. Anche nel 2009, a seguito della peggiore crisi finanziaria della storia recente, e livelli di disoccupazione epidemici, la stragrande maggioranza degli intervistati (72 per cento) nutriva ancora fiducia nell’affermazione. Tali (false) convinzioni, secondo Bell, mantengono la stabilità del sistema politico perché i “perdenti” non lo colpevolizzano quanto dovrebbero. Il sistema elettorale stesso fornisce anche un elemento di controllo illusorio. Il dibattito sulla politica attuale – sui media e nella vita di tutti i giorni – è dominato dalla tradizionale narrazione delle elezioni foriere di cambiamento.
Lo spettacolo delle urne
Come osservano Hacker e Pierson: “Gli scontri tra il ‘team rosso’ e il ‘team blu’ non sono tanto diversi da una partita tra i Celtics e i Lakers. Questo è di certo il motivo per cui la politica come spettacolo elettorale è così attraente per i media: è entusiasmante, ed è semplice. I tifosi possono memorizzare le statistiche dei loro giocatori preferiti o diventare esperti delle grandi partite del passato. Tutti, tuttavia, possono godere dell’avvincente spettacolo di due team altamente motivati che si battono”. Nella realtà, la formulazione di politiche avviene tra un’elezione e l’altra, perlopiù lontano dai riflettori dei media: è lì che i grandi interessi aziendali si mobilitano e fanno pressioni a chi formula politiche per influenzare la struttura di mercati “privati” a loro favore. Per proseguire la metafora sportiva, è come se i tifosi di baseball credessero di poter influenzare i risultati delle partite perché possono votare per i giocatori dell’All-Star-Game, senza rendersi conto che i risultati sono perlopiù determinati dalla ricchezza delle squadre e dalle regole di proprietà della lega. Un’elezione, in altre parole, aiuta a spostare l’attenzione dai problemi politici inducendo la (spesso falsa) convinzione che cambiare il governo sia il modo più efficace per ottenere il cambiamento politico, e l’irrazionalità degli elettori aiuta a limitare il danno politico della disuguaglianza di reddito. Secondo Bell da un punto di vista morale, un sistema economico e politico la cui stabilità si fondi su false convinzioni non è desiderabile quanto dovrebbe. Ma anche più importante è il fatto che la disuguaglianza di reddito è negativa per la società.
Una società squilibrata
Più la società è diseguale, minore sarà la mobilità sociale. Facendo riferimento a estesi dati statistici, lo studioso di scienze sociali Richard Wilkinson sostiene che la disuguaglianza sfocia in stress, lo stress crea malessere a livello individuale e di massa, e la società in generale sofre di una difusa infelicità e livelli elevati di violenza, depressione, e sfiducia nella società. Bastano riduzioni contenute nella disuguaglianza per raggiungere migliori condizioni di salute, meno violenza, e relazioni più armoniose tra i membri di una famiglia, di una società e con l’ambiente. In altre parole, c’è bisogno di ridurre livelli elevati di disuguaglianza di reddito, anche se chi sta peggio non è disperatamente povero, se l’economia è molto innovativa e se la disuguaglianza viene sostenuta dall’irrazionalità degli elettori.
Possibili soluzioni
Quindi che cosa andrebbe fatto? Timothy Noah avanza soluzioni al problema della disuguaglianza di reddito senza inficiare l’istituzione della democrazia elettorale: un sistema fiscale più progressivo, più lavoratori nel settore federale, un aumento dell’importazione di manodopera specializzata, l’allargamento universale all’istruzione in età prescolare, il controllo dei costi di college e università, la regolamentazione di Wall Street, e una ripresa del movimento dei lavoratori; sprona gli elettori ad appoggiare un presidente democratico. Possono esserci ragioni di ottimismo, argomenta Bell. Echeggiando il revival delle cause progressiste dopo la Grande Depressione, la crisi finanziaria e le sue conseguenze hanno aumentato la preoccupazione pubblica per la disuguaglianza di reddito e le sue cause reali.
Il predominio dell’1%
Dalla critica mossa dal presidente Obama alle istituzioni finanziarie agli interventi e alle denunce dei media che sottolineano il predominio economico dell’un per cento, “i molti” potrebbero rendersi conto della realtà e della necessità del cambiamento. “Forse però il problema va più in profondità e non può essere affrontato semplicemente scrivendo libri che espongono le cause della disuguaglianza di reddito e spronano gli elettori a diventare più razionali e a cercare il cambiamento politico negli interessi economici della maggioranza”, osserva Bell ponendo una domanda fondamentale. “Se il sistema democratico può essere così facilmente tenuto in scacco da gruppi organizzati che promuovono gli interessi dell’élite ricca e se le elezioni stesse allontanano l’attenzione generale dal problema reale (e se le persone sembrano più inclini a credere a favole alla Horatio Alger di persone passate dalla miseria alla ricchezza che ai dati presentati dagli studiosi di scienze sociali), è possibile prendere delle misure per ridurre la disuguaglianza senza mettere in dubbio la democrazia elettorale?” Un crescente numero di critici sostiene che il modello di governo basato primariamente sul voto popolare non riesce a fare in modo che le élite politiche siano responsabili e sensibili all’opinione pubblica nel suo insieme e non ostacola l’influenza sproporzionata dei ricchi sulle attività del governo.
Strategie elettorali per censo
La politica elettorale può essere completata da istituzioni come i sondaggi deliberativi con l’intento di creare un’opinione pubblica più informata e riflessiva, ma finché le elezioni sono viste come il solo (o il principale) meccanismo per scegliere persone “reali” che prendono decisioni, sarà difficile, forse impossibile, contrastare la “tirannide della minoranza ricca” nelle democrazie capitaliste. Un’alternativa alla democrazia elettorale: contenere i capitalisti Forse per contenere il potere dei capitalisti c’è bisogno del pugno di ferro. Come sappiamo, Karl Marx teorizzava l’esproprio della proprietà privata e una “dittatura del proletariato” come la fase temporanea sulla strada verso il vero comunismo, ma “esperimenti” di marxismo nel Ventesimo secolo hanno (a ragione) delegittimato quell’opzione. Ci sono comunque altre possibilità. Niccolò Machiavelli è noto soprattutto per la sua cinica proposta di ricorrere ad astuzia e doppiezza nell’arte di governare, ma disprezzava il governo dei ricchi ed era a favore di repubbliche in cui la gente contesta con vigore e contiene la condotta delle élite politiche ed economiche attraverso voti extra elettorali. Ispirato da Machiavelli, John P. McCormick propone nel contesto americano un corpo cittadino che escluda le élite socioeconomiche e quelle politiche e che accordi a persone comuni scelte a caso una significativa autorità di veto, legislativa e di censura all’interno del governo e sui funzionari pubblici. In teoria, sostiene il sociologo statunitense, questo tipo di corpo cittadino potente potrebbe contrastare l’influenza sproporzionata esercitata dai ricchi sulle attività governative, ma “non è politicamente realistico. Prima di tutto, i ricchi probabilmente non si arrenderebbero senza lottare”.