Cinque feriti, tre gravi, in un raid che, pur diverso, ha drammaticamente riportato alla mente la strage di Nassiriya di sedici anni fa. E' stato sfiorato un secondo massacro in Iraq, nei pressi di Kirkuk, dove un ordigno esplosivo ha investito un convoglio del quale facevano parte alcuni militari italiani, sul posto per una delle missioni cosiddette di mentoring and training a supporto delle forze regolari locali, irachene e curde, impegnate nel contrasto ai gruppi fondamentalisti. Uno dei fronti, l'Iraq, su cui il nostro Paese impiega uomini, mezzi e risorse, per svolgere un importante ruolo di assistenza (sia di addestramento che, giocoforza, almeno in parte operativa) ai contingenti che hanno il compito di contenere l'azione dei miliziani jihadisti. E non è un caso che, a rivendicare l'attacco, siano stati i gruppi appartenenti al sedicente Stato islamico. Ma l'Iraq, per quanto rivesta fondamentale importanza, è solo un braccio della macchina operativa: le forze italiane restano attive anche in altri Paesi, solo alcuni dei quali considerati ad alto rischio, e quasi tutti con sostanziali differenze nella strutturazione delle missioni e nel numero dei militari impiegati. Un quadro di missioni variegato e multiforme, ma con il comune denominatore della sicurezza internazionale, sul quale In Terris ha provato a far chiarezza con il dott. Alessandro Marrone, responsabile del Programma “Difesa” dell'Istituto Affari internazionali (Iai).
Dott. Marrone, il raid contro le Forze speciali italiane è tornato a scuotere l'opinione pubblica, riportando alla mente gravissimi precedenti come quello di Nassiriya. Al momento, però, è ancora complicato stabilire con chiarezza il contesto in cui è accaduto…
“Effettivamente è difficile capire esattamente cosa è successo. La missione italiana in Iraq, nel quadro della coalizione internazionale contro lo Stato islamico, è volta a sostenere le forze curde e irachene che combattono il daesh, laddove sostenere vuol dire addestrare, insegnare a utilizzare gli equipaggiamenti e anche uscire insieme in missioni congiunte, le quali possono essere di pattugliamento, ricognizione o volte a combattere direttamente i miliziani jihadisti. Ci sono quindi elevati tassi di rischio in questa missione, perché non mira a mantenere la pace tra fazioni che hanno siglato un accordo come in Kosovo ma, si svolgono in nazioni teatro di guerra. Per questo c’è una presenza di Forze speciali italiane sul territorio: questa implica si tratti di missioni coperte da segreto, ad alto rischio e per colpire bersagli del sedicente Stato islamico. Bisogna vedere se l’attacco subito due giorni fa sia da inserire nel quadro di un’operazione di pattugliamento o di una vera e propria missione delle Forze speciali contro obiettivi Isis”.
In sostanza, alle operazioni mentoring and training, se ne possono affiancare altre, per così dire, più strettamente militari?
“Con 'mentoring' non si intende solo una formazione teorica o sull’impiego dell'equipaggiamento ma anche la possibilità di uscire insieme in missione e, quindi, condividendone i rischi. Questo non vuol dire sostituire le forze locali ma vedere come si comportano, dar loro un feedback. Va da sé che, uscendo con lo stesso convoglio, in caso di attacco esplosivo vengano coinvolti tutti allo stesso modo. Va ricordato che la missione è sì di addestramento e mentoring, ma rivolto a forze di combattimento”.
Quella in Iraq non è l'unica missione internazionale svolta dal nostro Paese a supporto di forze locali…
“In Iraq viene svolta nell’ambito della coalizione internazionale contro lo Stato islamico sulla base delle risoluzioni Onu del 2014. L'Italia svolge poi un compito simile in Afghanistan ormai da 15 anni: è una missione Nato, con l'autorizzazione delle Nazioni Unite dal 2001, che mira al contrasto ad Al Qaeda e, in generale, agli estremisti. Anche lì, non a caso, in questi anni di impegno ci sono stati quasi cinquanta fra vittime e feriti italiani, perché si svolge in un teatro in cui c’è un avversario che ricorre a esplosivi, imboscate, lancio di razzi o colpi di mortaio contro le forze locali e straniere che operano in stretto coordinamento. Iraq e Afghanistan sono i Paesi in cui si fa addestramento delle forze di sicurezza locali che stanno combattendo un avversario e, per questo, quelli dove il rischio è più elevato. Nel caso del Libano e del Kosovo si tratta di un livello molto minore”.
Di quali numeri parliamo in termini di uomini e mezzi impiegati e di risorse investite?
“Il contingente italiano in Iraq ha un tetto massimo di 1100 militari, 305 mezzi terrestri e 12 aerei. Se si considera che, attualmente, in missioni internazionali all’estero sono impegnati circa 5700 militari, stiamo parlando di circa il 20% dell’impegno complessivo. La missione in Iraq è perciò una delle principali, assieme all’Afghanistan, 800 militari, al Libano, oltre 1100, e al Kosovo, circa 550. Tutto l’impiego complessivo delle missioni all’estero (5700 uomini e relativi mezzi) costa circa un miliardo di euro l’anno”.
Trattandosi di impegni assunti in precedenza, il programma di Difesa del nuovo governo si sposa bene alle missioni avviate o vi sono delle discrepanze fra costi e impiego di uomini e mezzi?
“Il governo Renzi ha iniziato questo impegno in Iraq nel 2014 e, come il successivo guidato da Paolo Gentiloni, ha proseguito quello già avviato in Afghanistan, perché hanno ritenuto che la minaccia dell’Isis e di Al Qaeda fossero rivolte sia alla sicurezza nazionale che alla stabilità regionale. E c’è stata comunque una risposta nell’ottica delle alleanze, l’Afghanistan in quello Nato, Onu e Ue, per l’Iraq una coalizione multinazionale che coinvolge anche molti stati arabi che combattono lo Stato islamico. Per quanto riguarda il Movimento 5 stelle, nel periodo dell’opposizione sono state mosse critiche a entrambe le missioni ma, dopo l’assunzione di responsabilità come forza del governo nel Conte I e II, l’Italia (e quindi i ministri pentastellati) non ha diminuito né interrotto le missioni. C’è una continuità negli ultimi quattro governi nelle missioni internazionali”.
Considerando l'impegno consistente di risorse, l'efficacia delle missioni come deterrente all'attività delle forze fondamentaliste può essere definita soddisfacente?
“Se pensiamo all’Iraq, nel 2014-15 c’è stata la grande avanzata dello Stato islamico, con la conquista di grandi città come Mosul e Kirkuk. Successi cul campo diventati una bandiera per i jihadisti daesh, come segnale della realizzazione della vera shari'a. Una crescita coincisa con una serie di attentati in Europa, da Nizza a Bruxelles fino a Parigi e Manchester, e questo perché, stante il vasto mondo dei fattori di rischio legato alle più disparate variabili (persone radicalizzabili, con disturbi o connesse alla criminalità), avere il riferimento di una bandiera di un sedicente stato che esercita l’autorità su milioni di musulmani e conquista province su province, ha galvanizzato il reclutamento e la retorica fondamentalista. Con l’arrivo delle sconfitte e la perdita di territorio, miliziani e finanziamenti – perché esercitare autorità su quelle porzioni di Iraq e Siria voleva dire vendere il petrolio o i beni artistici al mercato nero, e quindi finanziare sé stessi e le cellule terroristiche in Europa -, oltre che delle principali città, fino a occupare solo in modo sparso il territorio, è diminuito drasticamente anche il numero di attentati. Il rischio zero non potrà mai esserci ma, guardando gli ultimi cinque anni, in corrispondenza del successo militare in Medio Oriente si era verificato un incremento dell’attività terroristica in Europa. L’azione a supporto dello Stato iracheno e delle milizie curde, quindi, sta contenendo i focolai che alimentano il terrorismo fondamentalista in Europa”.
Il raid in Iraq a distanza di soli due giorni dalla sedicesima ricorrenza della strage di Nassiriya ha un significato o si tratta di una coincidenza?
“Quando si hanno 1100 uomini sul terreno e un alto numero di missioni costantemente, si offre molto bersaglio agli attacchi nei confronti dei convogli o dei contingenti. La pianificazione di un attacco dipende quindi da molte variabili locali, come il luogo e la natura della missione colpita. Questa volta, il raid è arrivato in prossimità della ricorrenza di Nassiriya ma, in questo contesto, i fattori locali incidono di più”.
A tal proposito, tenendo in considerazione i vari fattori in campo, è possibile che il recente avvicendamento ai vertici daesh, seguito all'eliminazione del leader al-Baghdadi, corrisponda a una sorta di recrudescenza dei gruppi di miliziani, aumentando il fattore di rischio?
“Si tratta di una dinamica continua. Nel daesh c’è un certo coordinamento ma esistono anche molti gruppi autonomi che condividono un obiettivo comune. Non è una catena così gerarchica, o almeno non quanto lo era quando le forze fondamentaliste esercitavano un controllo geograficamente più ampio e, per questo, necessitavano di una struttura che somigliasse a quella di uno Stato. Con la sconfitta, la decimazione e, quindi, la clandestinità, si è accentuato il carattere di diverse cellule o gruppi che, se in qualche modo si coordinano, hanno ognuno il proprio grado di autonomia. L’uccisione di al-Baghdadi ha tolto un vertice, ha avuto un effetto simbolico nel dimostrare la capacità degli Stati Uniti di colpire e, di conseguenza, l’assenza di impunità per i terroristi, ma è difficile capire quanto questa incida sulle dinamiche locali, proprio perché non si tratta di una struttura gerarchizzata. Molti gruppi in Iraq hanno interessi propri di potere, per cui il loro posizionamento rispetto agli agenti maggiori cambia, molto spesso a seconda della convenienza. In questo universo di estremisti e gruppi locali che, per ragioni di poteri o sopravvivenza, cambiano alleanze, non si può dire che l’uccisione di al-Baghdadi comporti un minore o maggiore rischio”.