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Alla scoperta delle navi ong

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Se ne parla da anni ma solo nelle ultime settimane sono entrate prepotentemente nel dibattito pubblico. Aquarius, Lifeline, Iuventa e così via. Poche decine di metri e un carico di esseri umani (spesso superiore alla loro portata) soccorsi mentre si trovavano in balia delle onde. C'è chi le chiama i “taxi del mediterraneo“. Definizione spesso contestata ma azzeccata. Non fanno pagare la corsa ma fanno più volte la spola tra le zone di recupero e i Paesi dell'Europa meridionale alla ricerca di un “porto sicuro” dove far sbarcare i migranti. Alcune sono di proprietà di organizzazioni umanitarie attive in tutto il pianeta, altre di realtà più piccole. Il loro ruolo è oggetto di una discussione accesa, nella quale non mancano polemiche e accuse. Ma cosa sono e qual è l'attività delle navi delle ong?

Le organizzazioni

Partiamo dal principio. Le organizzazioni non governative (ong appunto) sono entità senza fini di lucro, indipendenti dagli Stati e dalle istituzioni internazionali (Onu, Unione europea ecc), nate dalla libera associazione di privati che intendono perseguire determinate finalità, solitamente quella umanitaria. Il loro sostentamento (di norma) è assicurato da donazioni, elargizioni filantropiche e (in particolare per quelle più grandi) da finanziamenti pubblici

Tipologie

Ne esistono di diversi tipi. Alcune sono di volontariato, altre organizzano progetti di cooperazione in Paesi in via di sviluppo. Ci sono poi le ong che sostengono questi programmi inviando personale sul territorio e quelle specializzate in ricerca, studio e formazione dei propri collaboratori. Spesso tale attività si svolge direttamente negli Stati occidentali, dove i volontari vengono istruiti prima di essere mandati in missione. 

Le navi

Save the Children (la più antica), Amnesty International, Emergency e Medici Senza Frontiere (Msf) sono le più famose in tema di tutela dei diritti umani. Di queste, però, nessuna è attualmente attiva con proprie navi nel Mediterraneo. L'unica ancora, in parte coinvolta, nelle operazioni di salvataggio è Msf, che nel 2017 si è rifiutata di sottoscrivere il “codice di condotta delle ong” imposto dall'ex ministro italiano degll'Interno, Marco Minniti, e oggi presta assistenza con il proprio personale sanitario sulla Aquarius della franco-tedesca Sos Mediterranee. Oltre a questa ci sono la SeaWatch (della teutonica SeaWatch.org), la spagnola ProActiva Open Arms (sequestrata lo scorso marzo su ordine della Procura di Catania e poi “rilasciata” in aprile) e la Lifeline (della ong tedesca Mission Lifeline). Quattro in tutto. 

Il caso delle bandiere

Una delle principali controversie riguardanti queste imbarcazioni è l'uso di un vessillo diverso rispetto a quello della nazione dove ha sede l'ong proprietaria. L'ultimo caso riguarda proprio la Lifeline, tedesca ma battente bandiera olandese. Si tratta della cosidetta “bandiera di comodo“, cui si ricorre quando le pratiche di registrazione di una nave nel Paese d'origine sono particolarmente complesse o se si vuole accedere a un regime fiscale più favorevole. Il tutto avviene pagando un contributo allo Stato presso cui si vuole essere registrati. Per agevolare tale prassi esistono anche appositi siti web che a prezzi modici (il rage è 300/600 euro a seconda se gli interessati siano europei o non) offrono il “cambio di insegna“. La questione non è di poco conto, perché dalla bandiera dipende anche la giurisdizione cui l'imbarcazione è soggetta. 

I movimenti

Un'altra questione su cui si è discusso concerne le tratte compiute da queste navi. Lo scorso anno in rete spopolò la video inchiesta realizzata dal giovane blogger italiano Luca Donadel, il quale, mediante un sistema di tracciazione satellitare cercò di dimostrare che buona parte dei salvataggi avveniva non nel Canale di Sicilia (di competenza quasi esclusivamente italiana) ma a poche miglia nautiche dalle coste libiche e tunisine. Di conseguenza, si chiedeva, per quale motivo gli sbarchi avvengono quasi sempre sulle nostre coste? La situazione è, realtà, molto più complessa e risente di una normativa internazionale confusa e stratificata. La stessa identificazione del “porto più sicuro” dipende non solo di parametri geografici (in soldoni: il più vicino) ma anche pratici (capacità della nazione, funzionamento del sistema di accoglienza, trattamento assicurato agli immigrati e così via).  

Vicende giudiziarie

Un diritto poco chiaro, cui fa da contraltare la poca disponibilità al confronto mostrato da alcune ong, da adito a dubbi e sospetti. A ciò si sono aggiunte, nel 2017, le parole del procuratore della Repubblica di Catania, Carmelo Zuccaro, che, durante un'audizione alla Commissione difesa del Seanto, parlò di “figure non proprio collimabili con quelle dei filantropi” e definì “molto utile” l'individuazione “delle fonti di finanziamento delle ong di più recente nascita”. Ovviamente, aggiunse, “non tutte vanno messe nello stesso piano”, visto che alcune hanno “dimostrato inequivocabilmente che operano per solidarietà umana”. Recentemente, fra l'altro, la Procura di Palermo ha chiesto l'archiviazione per due distinte indagini su SeaWatch e ProActiva. Per i giudici siciliani non esistono “elementi concreti” per ravvisare legami “tra i soggetti intervenuti nel corso delle operazioni di salvataggio a bordo delle navi delle Ong e i trafficanti operanti sul territorio libico”. La miglior soluzione per superare una fase delicata com'è quella attuale diventa allora la ricerca di un dialogo costruttivo che porti, da una parte, a una migliore definizione del contesto normativo e, dall'altra, a una maggiore disponibilità al confronto e alla trasparenza. Il tutto in nome della solidarietà

Luca La Mantia: