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Libia: tesori d’arte in pericolo, arriva l’appello dell’Unesco

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Dopo Iraq e Siria, è la volta della Libia. E’ arrivato infatti forte e chiaro l’appello dell’Unesco a tutte le organizzazioni che operano in Libia e alle istituzioni internazionali per la salvaguardia dei tesori culturali del Paese sconvolto da guerra, saccheggi e dalla fuga disperata di 300mila persone che premono alle frontiere. L’agenzia delle Nazioni Unite elenca i disastri alle opere d’arte libiche, una lista terribile che si aggrava ogni giorno di più.

Il 7 ottobre gli estremisti islamici hanno vandalizzato la moschea Akmed Pasha Karamani, nella Medina di Tripoli, distruggendo maioliche, decorazioni in marmo e i preziosi pavimenti. Poco dopo, denuncia l’Unesco, è stata presa di mira la storica Othman Pasha Madrassa, vandalizzata e saccheggiata dei suoi antichi arredi. Mentre è fallito il tentativo di distruggere la moschea Darghout, sventato da volontari del posto. La direttrice generale dell’Unesco, Irina Bokova, denuncia: “Questi attacchi ai monumenti culturali e religiosi di Tripoli non sono semplici danni collaterali: avvengono in un contesto di ripetute e deliberate aggressioni all’eredità culturale del Paese, in Libia come altrove, minacciando la coesione sociale e alimentando violenze e divisioni”. L’Unesco sta coordinando, tra fortissime difficoltà, le azioni e le attività di salvaguardia del patrimonio artistico anche di Mali, Iraq, Siria. In Libia, non appena possibile, l’Unesco darà il via a corsi di formazione di emergenza per affiancare le autorità locali a documentare le condizione dei luoghi a rischio e di quelli danneggiati.

Già nell’immediato post Gheddafi l’Unesco si è battuta contro il commercio illegale e l’esportazione dei beni culturali ad opera di collezionisti e ricettatori senza scrupoli. Il saccheggio, il furto e l’occultamento sono peraltro condannati dalla Convenzione Unesco del 1970, con l’aggravante che portare via da un paese qualche preziosa testimonianza del passato è rubare l’anima, depredare la memoria di un popolo.

Sara Sbaffi: