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“Il mangiatore di pietre”: il duro confronto con le frontiere dell'anima

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Un confronto con un dramma esistenziale, che si manifesta non solo sulla base di esperienze personali ma anche attraverso l'incontro con una realtà che, a sua volta, si interseca su diverse complesse chiavi di lettura. Quella di Cesare, protagonista del film Il mangiatore di pietre, riadattamento del romanzo omonimo del 2004 firmato da Davide Longo, è una vicenda che assume i connotati di un'introspezione, un viaggio dentro se stessi che, però, passa sui ben più tangibili sentieri dei freddi valichi alpini attraverso i quali lui, un passeur, scorta quei migranti che si apprestano a lasciare l'Italia. Mondi diversi posti su piani paralleli: un disagio antropologico, creato da una realtà che scompare per far posto al buio e ai fantasmi delle proprie esistenze, affiancato dal dramma di chi attraversa un Paese straniero per cercare di oltrepassare la cresta montuosa alla ricerca di una realtà senza muri. Scenari di sofferenze speculari che possono però trovare redenzione proprio attraverso il confronto, riconoscendo come, in un quadro di solitudine, possano manifestarsi anche delle forme di somiglianza, fornendo forse la motivazione giusta per rimettersi in gioco. In Terris ne ha parlato con il regista Nicola Bellucci, documentarista di fama al suo esordio cinematografico (in senso stretto), con un film di lettura interiore che mostra una realtà forse culturalmente lontana ma molto più prossima di quanto non si pensi.

 

Nicola Bellucci, in un momento storico in cui il tema dell'emigrazione è regolarmente riportato dalle cronache, questo film sembra offrirne una chiave di lettura particolare che, in qualche modo, lo rende ancora più prossimo…
“Il tentativo che ho fatto è quello di raccontare anche il dramma della migrazione, partendo però da un tema molto personale. Il tutto è giocato sulla scelta fondamentale tra il bene e il male che il protagonista del film è costretto a compiere, su un piano di problematiche che riguardano più lui stesso che direttamente la questione dei migranti. Problematiche che poi, inevitabilmente, lo porteranno a confrontarsi con un altro tipo di scelta, quella di salvare non solo se stesso ma anche altre persone. Mi preme sottolineare che questo film amplia il tema dei migranti anche attraverso il co-protagonista, un ragazzo che affianca il personaggio centrale, Cesare. Ed è nel rapporto fra di loro che si innescano tematiche fondamentali. Ci sono come due poli su cui il film gioca”.

Possiamo definirli?
“Uno di questi è certamente quello della trasmissione del sapere: questo passeur vive in un mondo che sta scomparendo, in cui trasmettere quello che sa fare è fondamentale per trovare il senso della vita. Ed è anche ciò che costituisce il nucleo fondamentale della propria esistenza. Il protagonista vive poi l'interruzione di questa trasmissione, sperimentando un nuovo dramma che, questa volta, fa parte di un dolore di fondo che l'esperienza genitoriale richiama; l'altra problematica riguarda la difficoltà stessa del capire cosa è giusto e cosa è sbagliato. Quindi, a volte, anche se apparentemente sembra facile scegliere, fare ciò che è giusto può costare molto caro. Bisogna vedere come si reagisce e quanto si è disposti a rimettersi in gioco”.

Qui si inserisce il tema del confronto con le nostre vicende umane che, nel caso di un personaggio come Cesare, risultano ancora più evidenti, oltre che profonde…
“Assolutamente. L'atmosfera del film è quella di una valle chiusa, un luogo fortemente simbolico. La montagna ha una sua espansione in verticale, è un luogo meditativo. Il personaggio è diventato una sorta crisalide, un uomo che non ha più la capacità o la volontà di interagire con il mondo, un ex anarchico che sente scomparire tutti i fluidi positivi, così come alcune motivazioni ideali nei confronti di questo 'figlioccio' – che diventerà uno dei suoi più grandi dolori -, che lo hanno spinto ad accettare un lavoro duro come quello del passeur, trasformandolo però in una 'roccia vivente'. La montagna stessa, con le sue pietre e le sue avversità, diventa quindi uno specchio dello stato d'animo del personaggio. C'è come un passaggio attraverso varie stazioni del dolore, finché non arriverà l'occasione che lo costringerà a rimettersi in gioco e, allo stesso tempo, a ripristinare una comunicazione con il mondo. C'è una bella epigrafe all'inizio del romanzo, una citazione di Cormac McCarthy che riassume il senso di questo personaggio: 'Il coraggio è una forma di costanza: il codardo abbandona innanzitutto se stesso, tutte le altre viltà vengono da sole'. Subentra quindi una lotta contro la propria codardia e anche il modo in cui affronta il dramma delle migrazioni, sembra trasmettere l'idea di voler superare la viltà più grande, quella del rinunciare a vivere”.

In un passaggio del film, il protagonista si rivolge a una di quelle persone affermando che indietro lui non ha mai lasciato nessuno… E' forse un modo per espiare il risentimento verso quello che è stato l'abbandono di se stesso?
“Ci sono in realtà due frasi molto forti, una delle quali detta dal più giovane dei due protagonisti: 'Se non lo facciamo noi non lo farà nessuno'. Penso sia una cosa assolutamente centrale oggi come oggi. Non si tratta di andare a cercare degli eroi ma di riaprire canali dentro se stessi per ritrovare una forma di umanità. Se una volta questo passeur faceva il suo mestiere per mera sopravvivenza, tra l'altro si trattava di pratiche semi-illegali ma con una loro forza etica che interessavano tutto l'arco alpino, ora si pone la domanda se tutto questo potesse essere fatto anche per un altro motivo. Si tratta di una ricerca nuova, di un altro senso del proprio agire che questo personaggio comprende attraverso la forza e l'insistenza del ragazzo che lo affianca. Rendere in modo chiaro l'interazione fra i due, che nel romanzo è molto meno sviluppata, è quello che mi interessava maggiormente”.

Ed è anche un modo per offrire allo spettatore un'immagine concreta e più prossima alle vicende reali?
“Ho cercato di non fare un film educativo. Qualora dovesse essere un film riuscito, spero susciti un confronto diretto fra lo spettatore e i temi che affronta. Problemi ai quali l'opera non dà soluzioni: anzi, ne pone di nuovi, suscitando più domande che fornendo delle risposte”.

Forse per questo il personaggio di Cesare può essere definito un antieroe: al di là del suo “lavoro”, la sua esperienza rappresenta anche un radicale cambio di prospettiva…
“Io credo che oggi ci sia bisogno di questo genere di persone. Cesare è sicuramente un antieroe ma dall'altra parte c'è anche il bisogno del ragazzo di uscire da un mondo che sente così opprimente. In lui viene riposta una forma di speranza. Guardando i giovani di oggi io non sono così negativo: dovesse arrivare qualcosa di positivo è più facile che venga dalle nuove generazioni”.

Uno slancio che, se è valido per chi è cresciuto in un contesto chiuso e tradizionalista come le comunità alpine, a maggior ragione può coinvolgere in modo ancora più incisivo la nuova generazione…
“Sì, c'è il desiderio di cambiamento e l'importante è riuscire a canalizzarlo nel modo giusto. E ho piacere di sottolineare un altro aspetto…”

Quale?
“Il film mostra che non esiste solo un confine di ingresso come quello di Lampedusa, ma che l'Italia è anche un posto di uscita. Spesso le persone che arrivano se ne vanno, incontrando altri muri da superare. Io ho iniziato a girare il film nel 2017, all'inizio di questa stagione così difficile delle migrazioni attraverso le Alpi, che ha visto peraltro la morte di diverse persone. C'è un dramma che continua oltre Lampedusa, e ci sono dolori che si incontrano con altri dolori. Le valli che io racconto, non inquadrano solo la realtà alpina ma aprono una finestra anche su altri contesti simili, con fenomeni speculari che si verificano qui come in molte zone d'Italia. Penso ad esempio allo spopolamento: stiamo assistendo a un impoverimento di tutto quello che non può essere definito come 'urbano' e, per questo, c'è una grande forma di tristezza e di dolore che investe tali luoghi, come le valli del film. E' stato quindi interessante tentare di conciliare la prospettiva dei migranti stranieri con il minimale contatto con la popolazione locale: un momento di interazione in cui ci si guarda negli occhi e si capisce che si soffre entrambi. Una comunanza, un avvicinamento attraverso questa esperienza del dolore”.

In sostanza, a volte dimentichiamo forse un altro aspetto del dramma della migrazione, che fa dell'Italia non solo un punto di arrivo ma, molto spesso, anche un punto di partenza…
“Secondo me si affronta il fenomeno dell'emigrazione chiamandolo nel modo sbagliato: è una forma di lotta di classe che non è chiamata con questo nome. Quelli che chiamiamo migranti sono persone che soffrono gli avvenuti processi di globalizzazione e gli sconvolgimenti economici epocali. Potrebbero essere considerati una sorta di nuovo proletariato che si sta diffondendo in tutto il mondo. E quello che sta succedendo è forse una lotta classista che non riesce a trovare una sua espressione politica adeguata. L'interessante è vedere però cosa possiamo fare noi, che siamo attraversati da queste problematiche. Credo che nel film si affronti questo tema attraverso i personaggi: l'unico modo per restare umani è condividere il loro dolore, mettersi in viaggio a nostra volta”.

Una condizione umana che favorisce anche l'incontro e, magari, la consapevolezza di una forma di sofferenza comune?
“Si sente spesso questa forma di risentimento, di rancore che si manifesta soprattutto nel confronto con ciò che non conosciamo bene. Bisognerebbe chiedersi se questi sentimenti non provengano da forme di insoddisfazione private, personali che magari nulla hanno a che fare con le problematiche che queste persone portano con sé. Si tratta di quindi di lavorare su noi stessi: riflettere e cercare di comprendere quello che ci accade e, attraverso questo, tornare a renderci ancora utili. Nel film non vengono mostrate le consuete periferie cittadine ma contesti diversi, corredati da lingue come l'occitano. Si racconta un paesaggio un po' inconsueto, mostra un nord che rappresenta un altro tipo di periferia, quella delle zone meno urbanizzate, dove gettare il nostro sguardo perché, forse, è da lì che viene spesso questa incapacità di comprendere le trasformazioni sociali della nostra epoca. Quelle trasformazioni per le quali, forse, non abbiamo mezzi adeguati, senza nessuno ci aiuti a fare dei concreti passi in avanti”.

Damiano Mattana: