Perchè il Sessantotto? Se lo chiedono, a cinquant'anni dall'inizio della stagione della contestazione giovanile, Mario Calabresi, direttore di 'Repubblica' e Maria Bocci, professoressa di storia contemporanea all'università Cattolica di Milano in un dibattito introdotto da Francesco Magni, ricercatore dell'università di Bergamo. Non la classica rievocazione ma un momento di riflessione durante il quale soffermarsi su quelle che sono le sfide di quella fase ancora attuali oggi.
La mostra
L'incontro è iniziato con l'intervento di Maria Bocci, curatrice della mostra “Vogliamo tutto” dedicata all'approfondimento del ruolo del '68 nella storia del cambiamento della società italiana. Nella preparazione dell'iniziativa è stato decisivo il confronto con gli studenti di oggi. La docente ha sottolineato l'impatto che su questi ha avuto lo studio della stagione della contestazione: “Alcuni di loro hanno studiato i fatti di 40 anni fa come fossero di oggi.” La mostra, per i curatori, è stata un'occasione per “raccogliere la sfida, andare dietro gli interessi dei ragazzi. Un'occasione preziosa che ha cambiato il nostro anno di università”. E' cambiamento, ha detto Maria Bocci, “la parola che li mette immediatamente in connessione con il '68. Appena i ragazzi iniziano a studiare, si chiedono; 'verso dove dobbiamo andare per cambiare?' Chi ci guida? Cosa dobbiamo cambiare? Quali sono gli strumenti per farlo? Chi è capace di cambiare? Non è scontato sopportare il peso di queste domande”. Secondo la professoressa, ciò che gli studenti di oggi trovano più attuale del Sessantotto è la volontà di cambiare “il mondo a partire dalla propria università, una dimensione tipicamente sessantottina”.
La testimonianza
Partendo da questa constatazione, la docente ha analizzato le ragioni che mossero quel fenomeno storico: “Le dimensioni del cambiamento vissuto e desiderato dalle generazioni di allora erano globali. I giovani degli anni '60 sono emersi come una categoria sociale a sè stante che si distingueva dagli adulti per mentalità e gusti culturali.” “Dimensione planetaria – ha voluto sottolineare la Bacci – nonostante le differenze evidenti che esistevano tra un giovane di Praga o di Varsavia ed uno di Milano o del Giappone”. La professoressa ha confessato di essere rimasta particolarmente colpita dalla testimonianza rilasciata ieri da Franco Bonisoli, ex brigatista, alla platea del Meeting: “Dell'incontro con Bonisoli sono rimasto colpita dalla spiegazione di come un ragazzo tra i 13 e i 19 anni potesse decidere di diventare terrorista”. A impressionarla, inoltre, anche la domanda di una ragazza che ha chiesto all'ex Br “come fosse possibile che i giovani dell'epoca non dormissero sonni tranquilli con una guerra che stava dall'altra parte del mondo”.
Il rifiuto e il vuoto
Sul filo del confronto tra i giovani di oggi e quelli dell'epoca, Maria Bocci ha evidenziato le difficoltà a capire fino in fondo quella stagione per via della mancanza degli strumenti teorici che consentano di comprendere di elementi di allora. Parlando dei giovani contemporanei, la docente ha detto: “Spesso quando parlano questi ragazzi si ha l'impressione vivano nel vuoto, fatto di assenza di punti cardinali”. Secondo la professoressa, “le differenze con il Sessantotto sono tantissime da questo punto di vista”, tuttavia, addebita proprio al rifiuto di interlocutori credibili fatto all'epoca dai sessantottini una delle cause di questa situazione: “Il '68 c'entra perchè il rifiuto del passato di allora e di chi lo trasmetteva è sfociato nel vuoto di oggi”.
Spazio al “mi interessa”
Parlando dell'esperienza della mostra, Maria Bocci ha detto: “La chiave interpretativa del nostro lavoro per rivedere il '68 è stato il desiderio di autenticità di quei giovani. E' l'aspetto che ha più colpito i nostri studenti.” “Quando siamo partiti – ha spiegato la docente – avevamo fatto una scelta diversa. Noi volevamo studiare quello che Papa Francesco chiama il 'cambiamento d'epoca', convinti che il '68 ne sia stato un detonatore. Volevamo sviluppare le conseguenze come ad esempio la trasformazione antropologica. Il risultato della mostra è stato il frutto del parlarsi reciproco, della disponibilità a mettersi in discussione.” Citando don Milani, autore di uno dei manifesti più noti del '68, i curatori hanno scelto di dare “spazio al 'mi interessa' dei ragazzi. Ma quel 'mi interessa' – ha spiegato la Bocci – va verificato. Un percorso guidato di conoscenza fatto coi professori è utile, purifica. Su questo mi tiro fuori dal '68″. La professoressa poi racconta cosa ha lasciato l'esperienza della mostra negli studenti che vi hanno collaborato. Lo fa con le parole di una di loro: “Alla fine del nostro lavoro, Margherita ha scritto che la storia è pazzesca perchè aiuta a capire che un dialogo tra passato e presente è inevitabile”.
I sistemi
“La mostra – ha continuato Maria Bocci – si muove su un doppio binario che segue, da una parte, la necessità di dare notizie e dall'altra quella cercare di capire chi siamo e cosa vogliamo”. La curatrice ha spiegato come nel progetto si sia sostenuta l'idea di un 'Sessantotto lungo': “La nostra ipotesi è quella di un '68 che parte con il boom economico. I suoi protagonisti sono i giovani che per la prima volta vivono in un mondo che conosce il benessere. E' abbastanza incredibile pensare che a tentare di fare la rivoluzione sono giovani che hanno vissuto una vita ben diversa da quella terribile dei padri”. “La protesta non nasce dalla povertà – ha sostenuto la professoressa – i giovani protagonisti del '68 si ribellano contro l'idea che sta all'origine della società del benessere in base alla quale la felicità viene attivata dai beni di consumo, si può quasi comprare.” I sessantottini, dunque, secondo il parere della Bacci, sarebbero stati mossi da un “disagio esistenziale e sociale” che li ha portati a mettere in discussione “le promesse del consumismo a cui gli adulti sembravano, invece, voler credere.” Citando il filosofo Augusto Del Noce, la professoressa ha sostenuto che alla base della protesta ci sarebbe stata la volontà di “mettere in discussione il sistema di valori che voleva elevare il benessere come fine”. Quei giovani, ha detto la docente, contestavano “quel mondo borghese che si serve della falsa promessa del consumismo per integrare nel sistema rimpicciolendo i sogni”. Ma secondo la docente, gli studenti di oggi che si sono avvicinati al periodo del '68 si sono riconosciuti soprattutto nei fermenti dei loro coetanei delle università americane dell'epoca, quindi in una protesta che era ancora “libera da influenze ideologiche”.
La crisi della tradizione
All'origine del fenomeno ci sarebbero stati più elementi, come il crollo del mito cattolico, la crisi della sinistra ma anche quella della gioventù cattolica. “La crisi del mondo giovanile cattolico – ha infatti sostenuto la Bacci – ha alimentato il '68, insieme al Vietnam, all'ingerenza Usa in Sudamerica, alcolonialismo, ma anche ai carri armati di Varsavia”. Analizzando le cause del fenomeno storico, la docente ha notato: “Il nocciolo è la crisi della tradizione, sia quella incarnata dal cattolicesimo, sia da quella incarnata dal marxismo. E poi la crisi del sistema scolastico, degli organismi di rappresentanza studentesca, di tutte le agenzie educative, le accuse ai professori di autoritarismo, tutti i problemi che riguardano università di massa”.
Come si cambia il mondo?
E' un bilancio in chiaroscuro quello sul '68 che emerge dalla mostra: “Le eredità piu durature sono state la rottura della vecchia morale borghese, la rivoluzione sessuale che forse sta all'origine del cambiamento d'epoca”. C'è poi, sottolinea la Bacci, la “vittoria del soggettivismo, l'evaporazione del padre che porta alla ricerca dolente ed esasperata di figure autorevoli che curino angosce personali e collettive”. La docente conclude riportando quelle che sono le provocazioni dell'epoca giudicate più attuali dagli studenti impegnati nell'organizzazione della mostra: “Ancora Margherita si è chiesta cosa significa cambiare il mondo, come si fa. E' rimasta sbalordita sentendo da un testimone dell'epoca che cambiare il mondo perdendo se stessi equivale a perdere tempo”. Il tema più attuale resta quel desiderio di autenticità, di libertà che, secondo la Bacci, la contestazione giovanile ha messo in evidenza.
L'intervento di Calabresi
E' stata poi la volta dell'intervento di Mario Calabresi, direttore del quotidiano 'La Repubblica', introdotto da una serie di domande del moderatore Francesco Magni: “Cosa vuol dire per lei, a partire dalla sua esperienza personale, contribuire al cambiamento del mondo? Che contributo possiamo dare come giovani assetati di cambiamento? Cosa direbbe ai giovani che non sentono questa esigenza, che rimangono chiusi e isolati nei loro piccoli mondi?”
Calabresi ha aperto il suo discorso chiarendo: “Se mi avessero chiesto di venire a parlare dell'anniversario del '68 sarei rimasto al mare. Invece sono venuto per parlare ai giovani di quelle che sono le sfide di oggi”. Il direttore del quotidiano del Gruppo Espresso ha ricordato un episodio: “Quando ho ricevuto l'invito mi è venuto in mente Marchionne, che ho conosciuto bene ai tempi del 'La Stampa'. Mi ricordo che di ritorno dal Meeting mi disse di esser rimasto stregato dai lampi negli occhi dei giovani visti qui. Venendo qui – ha spiegato il giornalista – ho rivisto ciò che ha sentito Marchionne. Ho telefonato a una sorella di mia madre, medico in pensione, che partecipò all'inizio del '68 con l'occupazione all'università di Milano. Le ho chiesto cosa la spingesse… Mi ha risposto che a spingerla era soprattutto il tema delle disuguaglianze specialmente nelle università, come diritto allo studio. Oggi sembra scontato, ma all'epoca davvero se eri benestante potevi studiare, altrimenti no”.
Il cambiamento
Secondo Calabresi: “Una cosa ce l'ha lasciata il 68: comunque sia la società di oggi è meno disuguale di quella dell'epoca”. Ha provato a rispondere alla domanda su cosa si può fare per cambiare il mondo: “Ognuno deve provare a fare la differenza nel suo piccolo nella vita. Come fece mia zia”. Il direttore ha raccontato l'esperienza della sorella della madre: “Davanti agli scontri di piazza lei e il marito scapparono, non gli piaceva quella piega. Decisero che la differenza loro la volevano fare aprendo un ospedale in Africa. Si sposarono nel '69 e la loro lista di nozze consisteva in tutto ciò che era necessario per aprire un reparto in Uganda, in una regione dove non c'era nulla. La loro lista di nozze era un elenco di ciò che serviva per un reparto maternità: attrezzi chirurgici, bende, disinfettante,lettini. Questa fu la loro risposta a quella voglia di cambiamento. Non sapevano come sarebbe andata, lo fecero col cuore”. Calabresi ha ricordato una sua visita in Uganda di qualche anno fa: “Quattro anni fa sono tornato a vedere le conseguenze di quella lista di nozze. Prima andare in Uganda chiesi a mia madre cosa fosse rimasto di quella lista. Mi rispose che erano rimasti solo sei fondi e 4 tazzine di caffè, tutto il resto lo avevamo rotto io e i miei fratelli. Mentre della lista di nozze di mia zia e mio zio è rimasto un ospedale che oggi fa diecimila parti l'anno, uno dei più grandi ospedali dell'Uganda. Mi sono commosso nel vedere come il sogno di quei due ragazzi avesse camminato sulle gambe di tanti medici ed infermieri.” Con un riferimento indiretto all'attualità, il giornalista ha detto: “I miei zii erano andati ad 'aiutarli a casa loro'. Non è sbagliato dire aiutiamoli a casa loro, ma poi bisogna farlo poi”.
La vita è una maratona
Calabresi ha rivolto poi un invito ai giovani odierni, criticando alcuni loro atteggiamenti: “Fare la differenza oggi significa sottrarsi all'obbligo, alla dittatura dei like e della popolarità. Questa idea che tutto si risolva quando tu metti una foto su Instagram e con ansia vedi a quanta gente piace. Questo fatto di consegnare agli altri il giudizio continuo su ciò che sei tu. Provate a fuggirne – ha esortato il giornalista – guardatevi allo specchio per capire cosa vi interessa della vita, non per fare foto sui social”. Un altro tema affrontato dal direttore di 'Repubblica' è stato quello del valore delle parole: “In questa società si è perso il valore delle parole. Ormai non esistono più le parole normali. Tutto è super, o tiri un missile nella comunicazione ogni giorno, oppure non sei nessuno. Quando volete dire una frase forte, provate a fare una sottrazione ed utilizzatene una più appropriata e meno forte. Se fate questo, si fermano tutti”. Secondo il giornalista, “abbassare il tono è una grande sfida di oggi, non è solo metodo ma anche sostanza perchè ci dice che non possiamo vivere fuori giri. Non possiamo vivere pensando che la vita sia i 100 metri, la vita è una maratona, non è una cosa che va fatta tutta di corsa, bisogna avere il senso del tempo”.
Il valore della fatica
Calabresi ha poi parlato della mostra sul 68 curata anche dall'altra relatrice dell'incontro di oggi: “Nella mostra si parla del consumismo. Ma tra il consumismo degli anni '60 e quello degli anni '90 c'è una grande differenza. Per soddisfare i desideri negli anni 60 c'era bisogno di tempo e sacrificio, la lavatrice si comprava in tante rate. Invece negli anni più vicini a noi abbiamo un'idea di soddisfazione immediata del desiderio. Se soddisfatto immediatamente, il desiderio non ha più valore. Il percorso dà soddisfazioni. Datevi delle mete. In questo c'è l'autenticità, nel conquistare le cose. I nostri nonni hanno fatto molta fatica. L'Italia post-bellica fu ricostruita con la fatica. Si è pensato poi che il progresso fosse difendere i propri figli dalla fatica. Secondo me questa è una gigantesca fregatura. La fatica è la cosa migliore da augurare. I genitori non dovrebbero difendere i figli dalla fatica, ma dare loro gli strumenti”. Il direttore di 'Repubblica' ha poi concluso: “Il porsi domande è faticoso, molto meglio cercare risposte, frasi che ci piacciono, like. Ma farsi domande, anche tormentarsi un pò fa bene. La fatica è ciò che ci può salvare ed è l'antitodo alla società di adesso. La risposta ai giovani non è 'va bene ragazzi, non trovate lavoro, vi daremo dei soldi di Stato', ma piuttosto dobbiamo dire 'vi daremo gli strumenti per faticare'. Che vita è se uno non è stimolato a provare, anche a fallire? Usciamo da questa logica del successo. Bisogna provare e sbagliare”, ha concluso.