Divertente, irriverente, spontanea e per nulla “politically correct”, in pieno stile sit-com americana. Basterebbe a spiegare il successo della storica serie animata “I Simpson”? Probabilmente no. Oggi, proprio oggi, a trent’anni esatti dal debutto televisivo sulla rete statunitense Fox, l’interesse per la carismatica, satirica e strampalata famiglia “gialla” è tutt’altro che scemato. Il fumettista Matt Groening, l’ideatore della serie assieme all’accoppiata di soggettisti James L. Brooks e Sam Simon, l’aveva pensata bene, al netto di un successo non sbocciato immediatamente nel lontano 1987, con il frammento di un minuto “Good Night” all’interno del “Tracey Ulman Show”. Il format, almeno inizialmente, era sostanzialmente questo: inserire nelle serate degli americani le vicende di una famiglia “gialla”, in un mini-sketch durante gli spezzoni pubblicitari. E, fino al 1989, quando la serie passò in prima serata, la soluzione funzionò, creando al quintetto familiare un primo ampio bacino di pubblico.
Storie di una famiglia “disfunzionale”
Ma probabilmente nessuno, chissà, forse nemmeno gli autori, poteva prevedere il successo che, di lì a poco, la serie animata avrebbe raccolto. La vincente mossa dell’autoironia, in un America, quella degli anni Ottanta-Novanta, che riusciva a divertirsi osservando in tv il palesamento a metà tra satirico e comico dei propri stereotipi, si rivelò la chiave di volta che permise alla serie anche la traversata dell’Atlantico con egual successo. Il tutto avviene in un contesto cittadino, quello di Springfield, visto come una sorta di luogo e non-luogo, che esiste (con tanto di fondatore, il trapper Geremia Springfield) ma non si capisce dove sia, che c’è perché c’è la società americana che lo popola, in un mondo che non ha bisogno di identificazioni geografiche più precise per mostrarsi in tutta la sua (dis)funzionalità quotidiana. E di quotidiano, “I Simpson” hanno tutto, a cominciare dal nucleo familiare dei protagonisti: c’è il capofamiglia, Homer, imbranato, sovrappeso, consumatore accanito di birra “Duff” e impiegato non propriamente qualificato nella locale centrale nucleare, attorno alla quale gira tutta l’economia cittadina; c’è la mamma, Marge, casalinga e genitrice perfetta, affezionata al marito ma sempre pronta a fargli notare le sue imperfezioni; e poi ci sono i figli, il discolo dai capelli a spazzola, Bart, il “genio” rivoluzionario, Lisa, e la più piccola e perennemente lattante Maggie. Tutti i nomi, tranne quello di Bart, appartengono alla famiglia di Groening.
Ironia filosofeggiante
Il più classico dei quadretti, attorno al quale ruota un vero e proprio universo di personaggi più o meno iconici, ognuno dei quali con una precisa identità, un ruolo specifico e un altrettanto delineata dote di stereotipate caratteristiche tipicamente “americane”. “I Simpson” fanno così breccia nel muro dello schermo, penetrando con tutta la loro carica empatica e coinvolgente nella sfera quotidiana di un pomeriggio, offrendo uno spaccato tutt’altro che “da bambini” della società contemporanea, quella americana nello specifico ma un po’ quella di tutti, mostrandone il lato scorretto e ingiusto, toccando anche argomenti delicati e temi particolarmente sensibili, con la stessa tragicomica ironia. L’alchimia giusta è probabilmente questa: fondere la capacità di sbeffeggiare l’ipocrisia regnante fornendo un motivo per farcisi sopra due risate, con la “filosofeggiante” interpretazione di ogni personaggio del suo ruolo in società, con pregi e difetti derivanti.
“I Simpson”, la storia continua…
Ed ecco che, con sapienza mediatica e intelligenza culturale, si crea il cult, senza dimenticare gli apporti decisivi forniti da piccole chicche e accorgimenti ricorrenti, a cominciare dalla ormai quasi folkloristica sigla, alla gag del divano in coda al motivetto iniziale, o alla tipica espressione di disappunto “D’oh!” che Homer utilizza sovente, arrivata addirittura tra le pagine dell’Oxford English Dictionary. Mai come in questo caso, il tempo sembra non essere trascorso: la creazione di Matt Groening continua a spron battuto il suo cammino sul piccolo schermo, dopo 616 episodi, 32 Emmy Awards, una stella sulla Hollywood Walk of Fame e oltre 100 star del mondo reale apparse come “guest” nella sit-com. Un successo immutato che, in fondo, ci invita anche un po’ a riflettere: non tanto sulla storica serie, quanto su noi stessi e sul microcosmo, la nostra Springfield, che, in un ciclo quotidiano, torniamo inconsciamente ad abitare.