Da oltre trent'anni dalla loro prima comparsa in Tv, i Simpson hanno conquistato la copertina del Regno. E' dedicata infatti alla famosa “gag del divano” la foto dell'ultimo numero di Attualità.
Viaggio nel tempo
Negli Stati Uniti la Fox ha mandato in onda la prima puntata della nuova stagione dei Simpson, che è cominciata con una versione incredibile della consueta gag del divano posta alla fine della sigla. Firmato da Don Hertzfeldt, animatore indie, lo sketch, riferisce Rivista Studio, comincia con Homer che preme un pulsante su uno strano aggeggio e finisce per viaggiare nel tempo fino al 101° secolo, in cui l’intera famiglia è un insieme scomposto di materia che blatera. Maggie, per esempio, è una cosa che chiede agli spettatori di comprare i prodotti dei “Sampans”. Avvengono poi altre trasformazioni finché una figura misteriosa (Marge) dice “All Animals Can Scream” e la puntata può cominciare. “Don Hertzfeldt non è un nome famoso ma forse si ricorderà qualche sua creazione, come Rejected, una collezione di clip che aveva proposto a un canale televisivo e non sono mai state approvate”, aggiunge Rivista Studio-Lettera 43. La più famosa e influente serie animata della storia della televisione, negli anni Novanta aveva raggiunto share record con una media di 20 milioni di telespettatori. “Quando andarono in onda per la prima volta nel 1989 rivoluzionarono la televisione americana, diventando uno dei prodotti culturali di massa più importanti del decennio – evidenzia il Post -. Da allora i Simpson sono diventati la sitcom più longeva della storia della televisione statunitense, con 662 episodi. Le prime otto stagioni dei Simpson sono considerate da praticamente tutti i critici come una delle cose più intelligenti e divertenti mai viste in televisione”. La serie era nuova sotto moltissimi punti di vista, a partire dalla visione dissacrante della famiglia media americana, che per tutti gli anni Ottanta era stata ritratta in maniera piatta e idilliaca dalla televisione. “I tre uomini principali dietro alla serie, il creatore Matt Groening e i produttori James L. Brooks e Sam Simon, costruirono un universo complesso e profondo di personaggi, ciascuno con una propria coerenza e una propria personalità, e tutti con delle credibili relazioni reciproche- analizza il Post-. Gli episodi, tutti autoconclusivi, avevano spesso sceneggiature imprevedibili e brillanti, e piene di battute che si prestavano spesso a più piani di lettura”. Tra gli episodi più famosi il secondo della nona stagione, andato in onda il 28 settembre 1997 con il titolo di “Il direttore e il povero”:è quello in cui si scopre che il direttore Skinner è in realtà un impostore che dopo la guerra in Vietnam assunse l’identità di un suo commilitone che credeva morto.
Una parabola verso il declino
Poi progressivamente, aggiunge il Post, la profondità dei personaggi, che aveva reso la serie amatissima negli anni precedenti e che era stata sviluppata alternando ai momenti comici anche momenti più emotivi e malinconici, venne meno: Homer da padre di famiglia stupido e irascibile ma amorevole e insicuro, diventa sempre più piatto, definito dalla sua pigrizia e dalla sua impulsività più che dagli aspetti che lo avevano reso un personaggio così amato. E Lisa, originariamente idealista, generosa e compassionevole, diventata da un certo punto in poi più simile a un’adolescente interessata soltanto alle mode culturali. “Le cause di questo declino furono molte, in parte fisiologiche e in parte legate alle trasformazioni nello staff che produceva concretamente la serie- precisa il Post-.In molti hanno attribuito il calo di qualità alle naturali difficoltà di mantenere vivace e originale una serie i cui personaggi non invecchiano e non hanno sostanziali trasformazioni orizzontali. Erano cambiate poi le persone dietro ai Simpson: Simon aveva lasciato la serie nel 1993 per divergenze creative, Groening a partire dalla fine degli anni Novanta si dedicò ad altri progetti come Futurama, e Brooks era stato progressivamente meno coinvolto fin dal 1995. A partire dalla sesta stagione alcuni degli autori più importanti, come Conan O’Brian, lasciarono la serie”. Un sintomo di questi cambiamenti è stato identificato da molti nel modo in cui la serie ha trattato le celebrità: inizialmente i Simpson contenevano spesso acute e irriverenti satire dei personaggi dello show business o della politica americana. “Quando erano le stesse celebrità a essere ospitate nella serie come doppiatori, interpretavano spesso versioni molto autoironiche di se stessi, oppure personaggi nuovi e molto ben scritti: è molto citato per esempio l’episodio della seconda stagione in cui Dustin Hoffman interpretò un supplente nella scuola di Lisa – precisa il Post – Con il passare degli anni, l'impressione è stata che le ospitate di celebrità siano diventate una soluzione un po’ pigra per costruire un episodio, oppure semplici celebrazioni dello show business americano. Da allora, le cose non sono cambiate. Dall’inizio degli anni Duemila, gli ascolti dei Simpson sono stati in costante declino, mentre il giudizio della critica e del pubblico non è migliorato”. La serie è stata comunque rinnovata per almeno altre due stagioni, ma lo scorso weekend è stata superata nell’audience dai Griffin e da Bob’s Burger: due serie animate che con ogni probabilità, senza i Simpson, non sarebbero mai esistite.
Populismo e crisi della democrazia
L’immagine dei Simpson sintetizza lo studio del mese a firma di Paolo Segatti su “Populismo e crisi della democrazia”. Il sociologo dei fenomeni politici e giuridici, ordinario all’Università degli Studi di Milano muove la sua analisi da quando, all’indomani delle elezioni politiche del 2018, “sul Regno definimmo il crollo dei due maggiori schieramenti protagonisti del ventennio 1994- 2013 “Il cataclisma e l’apocalisse” intendevamo non solo connotare la vastità traumatica del cambiamento, bensì anche la sua qualità”. Quello che è successo poi con le elezioni europee del 2019 ha confermato la portata e la profondità della trasformazione avvenuta. “Il collasso del sistema precedente rivelava un orientamento elettorale (ma più ampiamente culturale, sociale e politico) inatteso- osserva il professor Segatti -. La direzione presa dagli italiani era quella di premiare una formazione di “sconosciuti”, i 5 Stelle, e una formazione di “marginali”, la Lega di Salvini. Entrambe le formazioni sono accomunate dall’uso di retoriche populiste di dubbia garanzia democratica. Il salto nel buio degli italiani è da valutare anche in connessione con il crollo della classe politica precedente”.
Il caso italiano
Scopo del dossier del Regno è quello di evidenziare il legame tra populismo e crisi della democrazia. Il caso italiano, che non è isolato in Europa, può essere descritto come paradigmatico della crisi della democrazia. La rivista Il Regno, fondata dalla Congregazione dei sacerdoti del Sacro Cuore, noti come dehoniani (dal nome del fondatore, padre Leone Giovanni Dehon) è edita da Il Regno srl, emanazione dell’Associazione Dignitatis Humanae. È un quindicinale di informazione e cultura d’ispirazione cristiana, con un’ampia diffusione nel mondo ecclesiale e fra il laicato cattolico più vivace. Nasce nel 1956 come rivista di pensiero e d’informazione. Oggi, dopo più di sessant’anni, Il Regno racconta il pontificato di Francesco, la vita delle Chiese, le analisi sulla vita sociale e politica in Italia e sul ruolo che in essa rivestono i cattolici e le istituzioni ecclesiali, le domande pastorali che stanno al cuore delle Chiese in ogni continente, l’attenzione per il ruolo mondiale delle altre religioni e delle altre culture, che si concentra in particolare su ebraismo e Islam e sull’area del Medio Oriente, le grandi questioni ecclesiologiche legate al post-concilio Vaticano II, con al primo posto l’ecumenismo.
La voce del Concilio
Il Regno è stato una delle voci editoriali più autorevoli negli anni del Concilio Vaticano II e poi un punto di riferimento per la sua ricezione. Nato nel 1956 da una precedente pubblicazione per i benefattori della Congregazione dei Dehoniani, il periodico si è imposto per alcune scelte originali: l’informazione al posto di riflessioni devote, l’apertura alla vita ecclesiale non solo in Italia ma anche del Sud del mondo, l’attenzione alla questione sociale in coerenza con il carisma del fondatore, padre Leone Dehon. Da “Il Regno” sono scaturite le Edizioni dehoniane Bologna (Edb) e quindi le altre riviste del Centro editoriale dehoniano. Nel 1964 è stata aperta la sezione “Documenti” per una conoscenza diretta del magistero. La rivista ha raccontato il vivace postconcilio in Italia, il formarsi dell’identità della Chiesa italiana attorno alla Conferenza episcopale, i convegni fiorentini con il volontariato sociale (anni ’90) e quelli camaldolesi con il mondo ecclesiale e politico. “Fra i temi più coltivati l’attualità ecclesiale internazionale, la dimensione ecumenica, la proposta teologica, il dialogo con la cultura laica e accademica, l’impegno allo sviluppo politico e civile”, osserva Avvenire. Il massimo numero di abbonati che la rivista ha registrato è stato di 12mila. “Settimana”, che in origine si chiamava “Settimana del clero”, è stata acquisita dai dehoniani nel 1965 e, dopo il rilancio, è diventata il più diffuso settimanale fra i preti italiani.
L’ecclesiologia del Vaticano II
Un punto qualificante dell’ecclesiologia conciliare di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI è la concezione della Chiesa quale comunione di chiese. Questo comporterà, per Bergoglio un mutamento di quell’equilibrio istituzionale che, nella chiesa latina, si è consolidato soprattutto nel secondo millennio della sua storia. Ricercare ciò che ci unisce prima ancora di quello che divide; prendere su di sé i segni del Misericordioso, prima ancora di quelli del Giudice: anche questo è un richiamo spesso ascoltato nell’ultimo Concilio, soprattutto dalla voce di colui che lo volle, Giovanni XXIII, e poi dai suoi successori. Francesco, infatti, ha celebrato Karol Wojtyla definendolo un “gigante della fede”, come lo definì Ratzinger al momento della beatificazione, annuendo sulla possibilità di usare l’appellativo di “magno” per il papa venuto dall’est europeo. Prima di percorrere le strade del mondo, secondo la celebre definizione di Bergoglio, Karol Wojtyla è cresciuto al servizio di Cristo e della Chiesa nella sua Patria, la Polonia. Lì si è formato il suo cuore, cuore che poi si è dilatato alla dimensione universale, prima partecipando al Concilio Vaticano II, e soprattutto dopo il 16 ottobre 1978, perché in esso trovassero posto tutte le nazioni, le lingue e le culture. Il soffio del Vaticano II nel mondo Papa Bergoglio parla spesso del «rinnovamento voluto dal Concilio ecumenico Vaticano II», assecondato da Giovanni XXIII, da Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, ed ha parlato di “gioia speciale per il fatto che la canonizzazione di papa Roncalli sia avvenuta assieme a quella del beato Giovanni Paolo II, che tale rinnovamento ha portato avanti nel suo lungo pontificato”. Inoltre, papa Bergoglio richiama frequentemente la necessità di programmi pastorali, per esempio di preparazione matrimoniale (anche sotto la spinta dei due Sinodi dedicati alla famiglia), basati sugli insegnamenti specifici di Giovanni Paolo II, che “si stanno rivelando strumenti promettenti e anzi indispensabili per comunicare la verità liberatrice sul matrimonio cristiano e stanno ispirando ai giovani una nuova speranza per sé e per il loro futuro come mariti e mogli, padri e madri”.
Mezzo secolo di lettura dei “segni dei tempi”
Gli ultimi cinquant’anni, osserva Vincenzo Bertolone, arcivescovo di Catanzaro-Squillace e presidente della conferenza episcopale calabra, sono stati anche un processo “concentrato” di interpretazione e rivisitazione continua dei documenti conciliari e delle loro scelte qualificanti all’interno di un processo di riforma nella continuità, inaugurato proprio dal Concilio. Secondo Bertolone, nel corso del dibattito ermeneutico è possibile identificare sia un primo filone di entusiastica adesione all’evento ecumenico, per comprenderlo e attuarlo nelle sue istanze riformatrici, sia un diverso interesse di ordine storico-critico. Questo ne segnala l’esito, che, almeno in alcuni, avrebbe portato ad un certo sentimento anticonciliare (nell’orizzonte di un’ermeneutica della discontinuità), mentre ora invece ne sottolinea la continuità. Essa è da cogliere, in particolare, nell’impressionante autoriforma della Chiesa indotta dal Vaticano II. Benedetto XVI, parlando alla Curia il 22 dicembre 2005, esclamò: “L’ultimo evento di quest’anno su cui vorrei soffermarmi in questa occasione è la celebrazione della conclusione del Concilio Vaticano II quarant’anni fa. Tale memoria suscita la domanda: qual è stato il risultato del Concilio? È stato recepito nel modo giusto? Che cosa, nella recezione del Concilio, è stato buono, che cosa insufficiente o sbagliato? Che cosa resta ancora da fare? Nessuno può negare che, in vaste parti della Chiesa, la recezione del Concilio si è svolta in modo piuttosto difficile”. Emerge la domanda: perché la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile? Ebbene, tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio o come diremmo oggi dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione. I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L’una ha causato confusione, l’altra, silenziosamente, ma sempre più visibilmente, ha portato e porta frutti. Da una parte esiste un’interpretazione che si può chiamare “ermeneutica della discontinuità e della rottura”; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna. Dall’altra parte c’è l'”ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino. L’ermeneutica della discontinuità rischia di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare. In questo senso il Concilio, anche se formalmente chiuso, è ancora aperto su tutti i temi in agenda.
La predicazione di Francesco
Dalla scuola conciliare nasce la pastorale della misericordia. La lezione del Vaticano II è particolarmente evidente nella predicazione di Francesco. Le lezioni del Concilio sono profonde, di varia natura e molteplici. Tra esse, si può sottolineare che, grazie al Concilio, Francesco invita a riscoprire nei Vangeli la sorgente della fede, la fonte della spiritualità, la fontana della predicazione. Attraverso ciò si scopre una spiritualità diversa che cambia l’orientamento dell’individuo e delle collettività umane. Non si può più tornare indietro. Chi torna indietro sbaglia. È questa, la lezione principale di Francesco, espressa in occasione dei cinquant’anni del nuovo Rito della messa in italiano. Il Pontefice, infatti, definisce il Concilio, un aggiornamento, una rilettura del Vangelo nella prospettiva della cultura contemporanea. Come, dunque, andare avanti?, si chiede Bergoglio. Insegnare e studiare teologia significa vivere su una frontiera, quella in cui il Vangelo incontra le necessità della gente a cui va annunciato in maniera comprensibile e significativa. La lettera è stata inviata in occasione dei 100 anni della Pontificia università cattolica argentina. Secondo Bertolone spesso Bergoglio sottolinea la necessità di proseguire sulla strada del Vaticano II e di non tornare indietro, rivolgendo questo invito a chi, nella Chiesa, ha sempre guardato con diffidenza alle novità introdotte all’epoca. Anche le recenti aperture emerse al Sinodo straordinario sulla famiglia, sui divorziati risposati e lo sforzo per sostenere il dialogo ecumenico tra le diverse confessioni cristiane, sono nel solco del Concilio che ha cambiato il volto della Chiesa contemporanea. Francesco ha colto l’occasione per un appello ai teologi. E cioè: “Non accontentatevi di una teologia da tavolino. Il vostro luogo di riflessione siano le frontiere. E non cadete nella tentazione di verniciarle, di profumarle, di aggiustarle un po’ e di addomesticarle. Anche i buoni teologi, come i buoni pastori, odorano di popolo e di strada e, con la loro riflessione, versano olio e vino sulle ferite degli uomini”. Per papa Bergoglio, infatti, anche la teologia deve essere «espressione di una Chiesa che è “ospedale da campo”, che vive la sua missione di salvezza e guarigione nel mondo» e, perciò, incoraggia i teologi “a studiare come nelle varie discipline, la dogmatica e la morale, la spiritualità e il diritto, possano riflettersi nella centralità della misericordia. Senza la misericordia la nostra teologia, il nostro diritto, la nostra pastorale corrono il rischio di franare nella meschinità burocratica o nell’ideologia che, di natura sua, vuole addomesticare il mistero. Comprendere la teologia è comprendere Dio, che è Amore”.