Se le scuole oggi non fossero chiuse a causa delle proteste degli insegnanti contro il ddl del Governo Renzi, gli studenti certamente ripercorrerebbero le gesta di uno dei più grandi condottieri della storia, Napoleone Bonaparte, morto in esilio sull’isola britannica di Sant’Elena il 5 maggio del 1821, come cantato magistralmente da Manzoni nelle sue rime. Fu Foscolo, nel pieno della sua vigorosa gioventù, a osannare nel 1797 la figura di Napoleone nell’ode “A Bonaparte liberatore” in seguito alle vittorie del corso contro gli Austriaci nell’Italia Settentrionale. Ben presto gli italiani scoprirono a loro spese che quel giovane generale nient’altro era che un conquistatore straniero che saccheggiava il Paese e stipulava con l’odiato nemico austriaco il Trattato di Campoformio che portò alla fine della Repubblica di Venezia, all’epoca una delle poche realtà indipendenti italiane, che resisteva dal IX secolo.
Eppure, quando Alessandro Manzoni apprese della morte di Napoleone, compose, in soli tre giorni, un’ode a lui dedicata di diciotto sestine e sei settenari ciascuna, Il Cinque Maggio. Nell’opera Manzoni non denigra né loda il generale, ma interpreta la sua morte dal punto di vista spirituale. “Ai posteri l’ardua sentenza” scrive il romanziere e poeta, scegliendo di non cadere in facili giudizi. Liberatore o tiranno, genio o malato di mente, alla fine Napoleone fu esiliato su un’isola sperduta: Manzoni prova a immaginare come si potesse sentire, privato degli affetti e delle cose materiali. Da cristiano, Manzoni demistifica il tema dell’eroismo e della guerra, che è solo spargimento di sangue e perpetuazione di sofferenze. Oggettivamente Napoleone conobbe la gloria, venne acclamato da un eroe, ma la morte, come diceva il grande Totò in tempi più recenti, “è come una livella” che mette tutti, imperatori e assassini, sullo stesso piano.