“Qualcuno stava dicendo qualcosa riguardo ombre che coprono il campo, riguardo lo scorrere dell’esistenza, di come ci si addormenti verso il mattino ed il mattino passi”, versi di Mark Strand, il poeta della “metafisica dell’assenza”, che sabato all’età di 80 anni si è spento a causa di un liposarcoma. Considerato una della massime voci della poesia contemporanea, vinse nel 1999 il premio Pulitzer. Nato nel 1934 a Summerside in Canada, cresce negli Stati Uniti e vive prevalentemente a New York. Una poesia destrutturata dal monumento delle regole, una poesia compagna della prosa, capace di penetrare il pensiero in tutte le sue superfici, da quella psicologica a quella più inconscia, passando tra sogno e realtà come accade nel repentino passaggio tra giorno e notte, tra luce ed ombra.
Le sue parole incidono ferite nella ricerca dell’esistenza, in un continuo e instancabile bisogno di senso. Tutto per il poeta è sottoposto al setaccio della verità, dalla quotidianità concreta alle più profonde domande esistenziali, rivelandosi semplice e complesso allo stesso tempo. La sua carriera segna cinquant’anni di storia tra pubblicazioni, in tutto il mondo e in più di trenta lingue, e tra importanti lezioni dietro le cattedre degli Stati uniti e del Brasile. Tra i lavori più celebri dell’autore “Il monumento” pubblicato in Italia da Fandango e che, a detta dell’artista americano in un intervista, fu scritto negli anni ’70 quando era profondamente attratto dall’idea di immortalità di un poeta: “Ho immaginato un anonimo scrittore, molto più serio di quello che sono stato io, che lascia dietro di sé un’opera. E questi sono canti di annullamento, di un io che va verso il nulla ma è animato dal desiderio che la sua vita prosegua ma capisce che questo desiderio comprende per forza anche ciò che ha scritto e lasciato”. Nelle sue opere Mark racconta l’attesa della morte, un’attesa senza fretta ma ricca di incertezza, un’incertezza che spoglia l’anima.