Per gran parte dei linguisti, la parola “casa” deriva dal sanscrito ska, che rimanda al concetto di coprire, dare sicurezza. Epprure, stando al New York Times, ci sono opere d'arte che non sono al sicuro e che, per esserlo, dovrebbero tornare nel luogo in cui sono state realizzate. L'ultimo, recente caso riguarda i bronzi del Benin: centinaia di opere d'arte sottratte durante il periodo coloniale dagli inglesi stanziati nell'antico Regno del Benin, nell'odierna Nigeria. Oggi a gran voce il governo di Abuja ne chiede la restituzione e parte dell'opinione pubblica britannica ha chiesto al British Museum di emendarsi da una pagina buia come quella del colonialismo. Gli inglesi non vanno per il sottile. Lo dimostrano le iniziative portate avanti dall'Università di Cambridge, emblema dell'high education inglese, per taluni simbolo di un'istituzione monolitica riflesso di un passato da cancellare. Ma è legittimo voltare pagina alla storia riparando con azioni legate a un contesto temporale differente? Il punto è centrale e, allo stesso tempo, affascinante. In nome della propria identità, il Cile ha chiesto al British Museum la riconsegna della statua Moai, sottratta all'Isola di Pasqua dall'equipaggio della marina britannica nel 1868: “Questa statua rappresenta un antenato che in tempo di guerra portò la pace al nostro popolo e fece la differenza tra il passato e il presente” ha dichiarato Rapa Naui davanti alla direzione del museo londinese. In controtendenza, il Presidente della Repubblica Francese, Emmanuel Macron, aveva dichiarato di voler restituire all'Africa depredata diverse opere d'arte sottratte nel passato. Propendere per una parte o per l'altra è complesso. Il dibattito di Interris.it con Tomaso Montanari, storico dell'arte e membro del Comitato scientifico delle Gallerie degli Uffizi
Professore, secondo lei è giusto restituire opere d'arte sottratte in passato a un altro Paese?
“Credo sia molto difficile. Mai come in questa materia non si può che decidere caso per caso, perché viviamo in un mondo che tende a rimuovere la storia. Bisogna andarci molto cauti, non c'è un criterio oggettivo. Una considerazione è che molto dipende dal grado di lontananza in cui l'illecito è stato compiuto e di accettabilità giuridica. Nel caso di espropriazioni naziste, per esempio, vi sono delle riparazioni legittime, perché sono vicine nel tempo e poi c'è un quadro giuridico solido che condanna questi atti come crimini. Più ci sia allontana nel tempo, però, più è difficile capire ed agire di conseguenza”.
In che senso?
“Prendiamo i marmi del Partenone: andrebbe stabilito se l'acquisto è stato valido o no. E, una volta scopertolo, abbiamo un pezzo della soluzione. La cosa è complicata dal fatto che i beni dei musei sono sottoposti in ogni Paese a un regime diverso. I quadri sono beni demaniali, per esempio. Via via che il tempo passa, si dà giustamente importanza al ruolo dell'istituzione museale. Anche lì è difficile stabilire chi deve decidere: i governi o i musei? I musei dovrebbero agire obbedendo alla scienza e alla legge. Per questo il tema diventa politico, perché si può anche emendare il proprio passato, ma poi va tenuto conto dei crimini che i singoli Stati continuano a perpretare oggi”.
Non ritiene che alcuni “reclami” sia fatti con un'ottica puramente identitaria?
“Appunto, l'arte non può essere al servizio di un progetto nazionalistico. Sarebbe curioso. In Itaia, vale un'altro discorso. Se c'è un carattere identitario nel nostro Paese, è la diffusione del patrimonio, che si unisce al paesaggio. Per cui, se si vuole scoprire l'italianità si deve andare nel paesaggio. Il più antico documento cartaceo d'Europa è la lettera di una regina normanna in Sicilia che scriveva in arabo. Ciò significa che nostra identità è meticcia. Se togliamo parole arabe dal vocabolario perderemmo gran parte del dizionario”.