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Burton e il suo Dumbo, tra dark e nostalgia

Vola Dumbo, vola”. Al cinema naturalmente, dopo un'ottantina d'anni dalla sua prima uscita nelle sale. Lo ha ricreato Tim Burton, che stasera verrà premiato con il David di Donatello alla carriera, sulla scia della rivoluzione-revival in live action che la Disney ha messo in piedi da qualche anno a questa parte. Una linea che ha ricevuto più consensi che critiche ma che, ora, con Dumbo ha avuto vita meno facile. La sfida del più gotico fra i registi è di quelle da far paura: prendere il mitico elefantino volante, toglierlo dal contesto originario fatto di dramma, dark e rosa elefanti vari, per trasporlo in uno scenario ben più realistico di un variegato ma problematico circo post-bellico, alle prese con difficoltà economiche e con lo scherno che gli artisti riservano al cucciolo e alle sue grandi orecchie che, sotto l'apparente deformità, nascondono l'incredibile capacità di farlo volare. Un modo per far soldi, vista l'eccezionalità, anzi, la magia di questo elefante-prodigio. Un po' come accadeva per i freakshow di un secolo e mezzo fa, sentimenti e affetti vengono brutalmente messi da parte per far posto al mero lucro, laddove solo la sensibilità di un bambino (anzi, due bambini) riesce a tenere insieme il filo dell'umanità.

Una sfida impegnativa

Burton probabilmente sapeva benissimo che la sfida di Dumbo sarebbe stata complicata. Che estrapolare l'elefantino dal cartone del '41 e ridisegnarlo per il pubblico del 2019 era un impegno, più che un modo per far cinema. C'è in gioco la nostalgia di chi (praticamente tutti) ha visto il cartone da piccolo e le attese dei fan di Burton e dei suoi lavori, dei quali c'è un po' in questa trasposizione, a cominciare dalle atmosfere. Un lavoro diverso da Alice in Wonderland perché, per certi versi, lasciava meno spazio a quelle interpretazioni che invece offre il romanzo di Lewis Carroll, con il personaggio di Alice scolpito nell'immaginario collettivo in modo del tutto differente dall'elefantino. Sì, Tim Burton tutto questo la sapeva bene: “Tra le tante trasposizioni dei classici che stanno facendo ora, Dumbo era in cima alla mia lista – ha detto il regista, in Italia per partecipare alla cerimonia dei David -. Prima di tutto per l'idea di questo outsider, questo animale con le orecchie troppo lunghe che trasforma il suo aspetto di diverso, fuori dai canoni, un po' freak, in un meraviglioso dono, quello di saper volare. Un messaggio potente verso chi non rientra nei canoni. Chi soffre di una disabilità mentale e fisica”.

Dreamland

Un messaggio dunque, ma non solo: “C'era anche il fatto che, essendo l'originale molto datato, legato all'epoca e pieno di stereotipi a sfondo razziale, ho potuto cambiarlo e sfrondarlo di tanti temi. Di certo non si poteva tenere un bambino che beve e si ubriaca. E così sono andato all'essenziale e ho lavorato a una storia mia: al centro ho messo una famiglia diversa, come quelle che esistono ora. Tutti nel film hanno perso qualcosa, Dumbo perde la mamma, i ragazzini hanno perso la madre, il loro padre, Colin Farrell, ha perso un braccio e il suo lavoro”. E nel crico del grottesco che è Dreamland, dove il sogno è una mera illusione rispetto al concreto dell'incubo, in gioco non c'è solo il futuro di un elefantino volante ma anche quel delicato meccanismo che separa l'umanità dall'egoismo. Come a dire che Dreamland, in fondo, è quella che viviamo ogni giorno.

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