Sempre più italiani vengono persuasi dal biologico. Sono spesso disposti a mettere mano al portafoglio pur di garantirsi l’acquisto di prodotti che arrecano sulla confezione l’ormai celebre fogliolina verde del bio. Ma si tratta di un’attenzione ben riposta? Secondo alcuni no. Negli ultimi tempi il dibattito pubblico si è acceso. In Terris, dopo aver raccolto il parere del prof. Luigi Mariani, ha intervistato Maurizio Gily, agronomo e giornalista, docente a contratto di viticoltura all'Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, direttore della rivista Millevigne.
Biologico: c'è un vantaggio per i consumatori?
“I prodotti biologici non hanno valori nutrizionali diversi dagli altri prodotti. Ciò che li distingue è l’assenza di residui di prodotti chimici di sintesi. Inoltre, anche se non ci sono dati scientifici a conferma, per esperienza personale trovo che spesso abbiano un sapore migliore. Forse per il fatto che le produzioni sono mediamente più basse, dunque garantiscono una maggiore concentrazione di aromi, o forse per il fatto che si usano fertilizzanti organici, che nutrono le piante in modo più completo”.
L’assenza di prodotti chimici di sintesi è meglio per la salute dei consumatori?
“La presenza di un residuo a livello minimo non è rilevante per la salute. Quindi se si fa agricoltura convenzionale rispettando norme e buon senso, il prodotto è sano. Ma l’agricoltura biologica, utilizzando prodotti di origine naturale e in genere a breve persistenza, rappresenta un’ulteriore garanzia, con alimenti spesso a residuo zero”.
L’agricoltura bio usa pesticidi?
“Premetto di non amare la parola pesticidi, perché è un anglicismo (pest in inglese significa parassita, ndr), ma è un termine ufficiale, dunque va bene. Per la legge italiana tutti gli antiparassitari sono considerati pesticidi, compresi quelli che si usano nel biologico, che sono di origine naturale (vegetale, animale, minerale). Generalmente sono sostanze più innocue, ma non si tratta di una regola assoluta”.
Che differenza c’è tra il rame, fungicida usato in agricoltura biologica, e il glifosato, diserbante che si può usare in agricoltura convenzionale?
“Per il rame la DL 50 orale, cioè la quantità di sostanza attiva che uccide la metà dei topi in un esperimento, è notevolmente più bassa che per il glifosato. Questo starebbe ad indicare che il rame è più tossico del glifosato, ma in realtà il rischio di tossicità da ingestione diretta è assai improbabile, sia per il rame che per il glifosato, perché in un prodotto alimentare è molto raro che si trovino dosi di pesticidi superiori ai livelli considerati sicuri. I pesticidi, piuttosto che sul consumatore, hanno un impatto negativo sull’operatore, su chi li maneggia in campagna, e anche sull’ambiente. Per il rame il problema è soprattutto che, essendo un metallo pesante, si accumula anno dopo anno nel terreno, e alla lunga può essere tossico per microflora, batteri, funghi e lombrichi e organismi acquatici se finisce nella rete di scolo. Il glifosato invece, essendo molecola organica, con il tempo si degrada, però inquina le acque: per ora i livelli rilevati sono bassi, ma si registra un aumento che non dovrebbe lasciare indifferenti”.
Non è stato indifferente al tema il Ministero della Salute, che nel 2006 ha firmato un decreto…
“Negli Stati Uniti e in Canada viene spruzzato glifosato sul grano quando la pianta è ancora verde, per farne accelerare la maturazione. Ovviamente questo significa spruzzare il glifosato direttamente sul prodotto che poi viene trasformato in alimenti (farine, birra), un metodo che da noi, per un principio di precauzione, è stato vietato. Da noi si usa solo per uccidere le erbe infestanti in assenza della coltura agraria o sotto la chioma degli alberi”.
Tornando al biologico, esiste un sistema di depurazione delle acque per garantire l’agricoltura bio?
“La questione riguarda le risaie, perché sono irrigue e l’acqua passa da una camera all’altra e nelle scoline: dunque se una risaia si trova a valle, non si può evitare la contaminazione. Alcune aziende hanno fonti autonome di approvvigionamento, laghetti, pozzi o fontanili ma spesso queste fonti non danno una grande disponibiità di acqua per cui si può fare risicoltura in asciutta (che però è molto meno produttiva), oppure usare la tecnica dell’irrigazione a goccia che consuma meno acqua”.
Più in generale le chiedo: il biologico garantisce sempre che i suoi prodotti non siano contaminati? Penso ad esempio al miele: le api raccolgono il polline anche lontano dall’alveare…
“Il problema della deriva di prodotti da colture vicine esiste, perché le superfici delle aziende sono piccole. Però la normativa impone una zona cuscinetto tra una coltivazione bio e una convenzionale. L’esempio delle api è calzante: non è possibile controllarle, volano dove vogliono. Solo alveari in vaste zone incontaminate possono assicurare la totale assenza di bottinamento su colture convenzionali. Peraltro le api hanno un organismo molto sensibile, per cui in ambienti contaminati tendenzialmente non sopravvivono”.
A proposito di normative, come fa ad essere garantita la terzietà quando gli enti certificatori che assegnano la fogliolina bio alle coltivazioni sono pagati dalle stesse imprese agricole?
“Non è nulla di diverso rispetto a quanto avviene per le altre certificazioni, ad esempio le dop (doc) o le igp: anche in quei casi il certificato paga il certificatore, ma in entrambi i casi gli organismi di controllo sono a loro volta sottoposti alla vigilanza del Ministero. Per la doc ci si basa essenzialmente su controlli documentali. Per il biologico si fanno anche verifiche a campione sulle colture per individuare contaminanti. Se nella doc il rischio è non avere la certificazione per la partita non conforme, nel bio avviene il ritiro della certificazione per tutta la produzione e si deve ripartire da zero, con tre anni di conversione prima di riottenere la certificazione. Infine, nel caso l’imprenditore abbia ricevuto contributi comunitari, deve restituirli, anche se relativi agli anni precedenti. Pur con questi deterrenti le frodi esistono, ma non sono così diffuse come qualcuno sostiene”.
Sugli scaffali dei nostri supermercati ci sono prodotti biologici d’importazione straniera. Il marchio bio è affidabile anche quando proviene dall’estero?
“Quando proviene da Paesi extracomunitari è difficile verificarne l’affidabilità. Discorso diverso per i prodotti dell’Ue, visto che le norme per ottenere la fogliolina verde sono comunitarie. Certo è che non tutti i Paesi hanno gli organi di controllo e la tradizione alimentare dell’Italia: ad affidarsi al Made in Italy di solito non si sbaglia”.
I prodotti bio sono più costosi degli altri, così da renderli inaccessibili a una vasta platea di clienti. È un’utopia abbassare i prezzi?
“Dipende dalla coltura. Per cereali come riso e grano abbassare i prezzi è difficile perché i costi di produzione del biologico sono molto più elevati essendo banditi fertilizzanti chimici e diserbanti. Meno differenza di costo c’è nel caso di frutta, ortaggi e vino: questi prodotti, spesso, sono acquistabili a prezzi poco superiori a quelli del convenzionale”.
È realistico pensare di erigere ad agricoltura di riferimento il biologico, considerando che necessiterebbe di spazi più ampi?
“Questo discorso avrebbe senso se avessimo problemi di fabbisogno alimentare da soddisfare. Ma in Italia oggi non è così, anzi molta produzione è in sopravanzo. Peraltro, se anche la produttività del biologico è minore, non mancano i terreni, ad oggi abbandonati, per consentirne una notevole espansione. Mi faccia però dire una cosa essenziale in conclusione”.
Prego…
“Le contrapposizioni sarebbero da evitare. La realtà è complessa. Non ha senso né dire che il biologico è sempre una truffa, né che l’agricoltura convenzionale sia sempre insana. Il biologico è una grande opportunità, ma ciò non deve andare a nocumento di un'agricoltura convenzionale sana”.