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Malattia mentale: perché ci fa paura

La malattia mentale emargina ed esclude, per questo fa paura. Trascina chi ne è affetto in universo di sofferenza, nel quale il dolore interiore è peggiore della patologia stessa. Fuggire è la via in apparenza più facile. Ma lei è lì, ti inchioda, non da tregua. Ne abbiamo parlato col Prof. Giuseppe Fabiano. Psicologo Psicoterapeuta, Direttore di un Centro di salute mentale dell’Asl Rm 6. Docente universitario presso le università di Roma “La Sapienza”, “Tor vergata” e l'ateneo telematico”Guglielmo Marconi” è autore del libro “Nel segno di Andrea Camilleri. Dalla narrazione psicologica alla psicopatologia”.

Perché la malattia mentale fa paura?

“Direi per un motivo antropologico legato proprio alla funzione che la mente con le sue abilità svolge sia per l’individuo che per la società. La crescita, il controllo degli istinti, l’assumere comportamenti accettati, aderire a valori condivisi fanno parte delle necessità sia dell’individuo che della società in cui vive. Lo stato alterato dovuto a quella che ancora oggi chiamiamo per abitudine e, in modo generico e non sempre preciso, malattia mentale altera l’equilibrio desiderato tra individuo e società e pertanto fa perdere i punti di riferimento rassicuranti per cui il 'malato di mente' fa ancora paura. A questo aggiungiamo anche che spesso la cronaca nel riportare notizie di delitti o altri eventi a forte contenuto emotivo sottolinea che l’autore del reato 'soffriva di disturbi psichic'”. In verità la cronaca riporta molti più delitti compiuti da cosiddette 'persone normali'. Accanto al termine malattia sarebbe molto più corretto parlare di disturbo, disagio, sofferenza ampliando il terreno di indagine e di intervento specialistico e non limitandolo ad una definizione organica propria del concetto di malattia”.

A quale età si manifestano, solitamente, i primi sintomi?

“Le statistiche riportano varie età di esordio. Certamente l’adolescenza rappresenta un passaggio importante nello sviluppo della persona e quindi un periodo più a rischio, anche purtroppo per il concomitante uso di sostanze stupefacenti che possono innescare processi psicopatologici anche molto precoci e molto gravi. Questo non significa, proprio per quel concetto di disturbo, disagio, sofferenza prima riportato che non siano possibili esordi successivi, in età adulta, così, come è possibile che situazioni vissute nell’infanzia possano già evidenziare condizioni di predisposizione”.

La diagnosi etichetta la persona?

“Oggi certamente meno di anni fa. Dobbiamo sempre ricordarci che dietro una diagnosi c’è una persona, un 'originale' unico, irripetibile con la sua storia, le sue specificità di personalità, di contesto e quindi la prognosi non è mai un valore assoluto, risentendo anche dei cosiddetti fattori di resilienza individuale e di contesto. Anche se parlo da psicologo non è negabile l’importanza delle terapie farmacologiche”.

Quali sono i disturbi più frequenti?

“Certamente ansia e depressione. Ovviamente riportando questa risposta devo necessariamente essere generico poiché esistono varie espressioni individuali sia dell’uno che dell’altra tipologia. Negli ultimi anni si è assistito ad un aumento dei cosiddetti disturbi di personalità. Qui però occorre chiedersi se sia un vero aumento o se sua migliorata e si sia diversificata la possibilità di effettuare tali diagnosi”.

Quanto i fattori ambientali incidono nell'insorgenza della malattia?

“Nella genesi del disagio e della sofferenza mentale tre sono i fattori determinanti: quello costituzionale fisico dovuto proprio all’assetto e al funzionamento del nostro organismo, quello psicologico legato al carattere e alla personalità e quello ambientale legato alle sollecitazioni, alle possibilità o ai problemi connessi con il contesto in cui si vive. E’ proprio il cosiddetto approccio bio-psico-sociale quello utilizzato oggi per comprendere la genesi del disagio e anche per predisporre il trattamento integrato e individualizzato”.

La sanità pubblica supporta le famiglie?

“L’Italia ha avuto il coraggio di eliminare quella istituzione disumana che era rappresentata dai manicomi avviando una riforma dell’assistenza basata sull’umanizzazione del trattamento. Molto è stato fatto e molto fa la sanità pubblica. Purtroppo anche nel campo della salute mentale, e voglio sottolineare il termine salute, si devono fare i conti con i problemi economici che hanno interessato tutti gli ambiti dell’assistenza sanitaria pubblica con ovvie ripercussioni sul personale e sulle strutture”.

I pazienti gravi che non possono stare in famiglia dove sono assistiti?

“Si cerca di realizzare dei percorsi individualizzati possibilmente con il coinvolgimento della famiglia. Si possono ad esempio avviare degli inserimenti in comunità per far acquisire coscienza anche delle proprie possibilità oltre che coadiuvare la soluzione o per lo meno il riconoscimento e contenimento dei problemi psicologici. Purtroppo la scarsità di risorse economiche non sempre consente di avviare percorsi per il 'dopo', per il reinserimento a pieno titolo nella società, ma ci sono e si attuano esperienze interessanti sebbene ancora troppo poche”.

Come si fa ad orientarsi tra i vari specialisti ed esperti?

“Importante sarebbe consultare gli specialisti della salute mentale (psichiatra e psicologo) con semplicità, senza remore o timori di etichettamento o di vergogna. Tutti noi attraversiamo periodi difficili e il confronto con lo specialista ci può suggerire quelle soluzioni utili per evitare problemi successivi. Ormai da anni è stato superato, almeno nella maggior parte dei professionisti, il dualismo psichiatra o psicologo: una valutazione e un intervento integrato spesso sono la soluzione migliore. Ritengo comunque che il medico di famiglia possa essere il primo interlocutore per un ascolto emotivo della persona oltre ovviamente alla serenità auspicabile nel clima familiare capace di dare ascolto e attenzione”.

La prevenzione della malattia mentale è possibile?

“Lo è ma realisticamente dobbiamo pensare che un margine di imprevedibilità è connaturato con la vita stessa che può portarci ad esperienze assolutamente imprevedibili al confronto delle quali non sempre possiamo prevedere le nostre reazioni”.

In conclusione, è possibile guarire?

“Il termine 'guarire' si addice più alle patologie fisiche. Nel campo della salute mentale dobbiamo essere molto più attenti alla personalizzazione delle cure, dove per cura intendo il 'prendersi cura' della persona in maniera il più possibile globale secondo quell’approccio che prima ho definito bio-psico-sociale. Conto ormai un’esperienza quarantennale nel settore e sento di poter affermare che proprio come la storia individuale sia unica nella genesi del disagio e della sofferenza allo stesso modo è individuale la possibilità di risoluzione legata a quei fattori che prima ho chiamato resilienza individuale e collettiva. Comunque mai disperarsi o arrendersi. L’accettazione della difficoltà è però un passo necessario indispensabile per poter sperare nel miglioramento”. 

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