Come e quando si esce da una epidemia?
“Innanzitutto va chiarito che le epidemie sono scatenate da batteri o da virus. Contro i batteri vennero scoperti solo negli anni 1940 gli antibiotici, molto potenti, ma oggi troppo utilizzati e quindi a volte meno efficaci perché i batteri si sono rafforzati. Contro i virus, invece, esistono solo i vaccini, che però devono essere specifici per ciascun tipo di virus, e medicinali adiuvanti per depotenziare la forza del virus”.
Può farci un esempio?
“Un solo virus è stato sradicato finora ed è il virus del vaiolo, per il quale venne trovato un vaccino efficace già nel 1798 da Jenner, ma la sua diffusione tardò molto e solo nel 1980, dopo campagne a tappeto di vaccinazione nei paesi in via di sviluppo, venne definitivamente eliminato. Dalle epidemie, dunque, si esce con lentezza, in modo tortuoso e non definitivamente, fino a quando un antidoto non viene trovato. Quarantena, igiene e reparti ospedalieri dedicati sono gli unici strumenti per depotenziare le epidemie, come abbiamo tristemente imparato”.Nella storia, quali sono stati i segnali dell’uscita da un’epidemia e del ritorno alla normalità?
“Nella storia ci sono stati due tipi di epidemie: quelle che scomparivano dopo alcuni mesi come effetto della quarantena e dei lazzaretti, salvo diffondersi altrove, e quelle che dopo un picco restavano endemiche. Il fatto è che la “normalità” era una volta una situazione di grave incertezza, con una mortalità infantile molto elevata, il rischio di guerre e carestie, oltre a lavori fisicamente molto pesanti che fiaccavano anche le persone più robuste, e una quantità di malattie incurabili”.
Con quali effetti?
“Ciò rendeva la vita contigua alla morte in ogni tempo. Oggi non si comprende più questo tipo di “normalità”, perché i grandi passi in avanti della medicina e della tecnologia in generale avevano abituato a considerare la vita “sicura”, salvo incidenti, cattiva fortuna o cattivi comportamenti. La presente pandemia ci ha ricordato che siamo anche oggi vulnerabili a tutta una serie di fenomeni naturali, oltre che a fenomeni politico-sociali, e che la vita è un dono che va trattato con cura e rispetto, aiutandosi vicendevolmente a far fronte alle difficoltà”.
Quali cambiamenti lascia una pandemia sul sistema produttivo e sulla società?
“La perdita di attività produttiva è correlata all’intensità e alla durata della pandemia. La peste bubbonica del Trecento (quella del Boccaccio) o quella del Seicento (descritta da Manzoni), due casi di gravissime ed estese pandemie, potevano far scomparire in pochi mesi anche un terzo della popolazione e dunque facevano crollare la produzione a lungo, però alzavano anche i salari. È stata avanzata una tesi che la rivoluzione industriale avvenne in Inghilterra perché l’Inghilterra mantenne i salari più elevati che si innescavano dopo le pandemie a lungo, a differenza di altri paesi, e questo fu un potente incentivo per sostituire lavoro con macchine. Nel caso dell’Italia, il grave declino economico del Seicento è ricondotto alla serie di pandemie di cui soffrì”.Una catastrofe come il coronavirus può essere l’occasione per un epocale cambio di paradigma economico negli stili di consumo e di vita?
“Ci sono almeno due lezioni importanti da ricavare dalla presente pandemia: prioritizzare i consumi e agire più cooperativamente. Occorre rendersi conto che un buon finanziamento dei sistemi sanitari è una priorità, così come la ricerca in campo medico e non solo; se più risorse devono essere allocate a questi obiettivi, ne resteranno meno per altri consumi, sui quali bisogna fare delle scelte che vadano nel senso della qualità. Ancora, la mondializzazione del virus, come anche i ben noti problemi ambientali, che scoppieranno ben presto, ricordano a tutti che un lavoro più cooperativo fra nazioni, fra imprese e fra cittadini è indispensabile. Speriamo davvero che siano in tanti a volerne prendere atto e ad agire di conseguenza”.