Working poor (lavoratore povero) è chi guadagna in misura insufficiente rispetto al costo della vita e si trova in uno stato di difficoltà economica. Il fenomeno, secondo i dati, è in crescita in tutti i Paesi occidentali, debilitati dalla crisi economica del 2008 e da quella attuale post pandemica. A ciò si aggiungano l’aumento dell’inflazione, del costo delle materie prime e dei carburanti che accompagnano il conflitto tra Ucraina e Russia. A risentirne sono soprattutto le fasce deboli della popolazione, le donne e giovani, la cui precarietà economica, fra contratti a termine, atipici e lavoro interinale, diventa anche esistenziale, costringendo i soggetti coinvolti a rinunciare a scelte di vita: a costituire una nuova famiglia, a pensare alla nascita di un figlio.
Il lavoratore povero è quello che perde la sua stabilità economica e ne risente anche a livello di dignità: umana, professionale e sociale. Le ripercussioni, a livello individuale, tendono a scoraggiare il working poor, a privarlo di iniziative, avviandolo anche verso una chiusura e un’esclusione dai rapporti sociali.
L’assunto è che svolgere un lavoro non sia sinonimo di solidità economica e non ponga al sicuro da problemi finanziari. Il flagello del “salario basso”, presente sin dagli esordi della rivoluzione (e della società) industriale, risulta, ancora adesso, una piaga per molti: 150 anni di rivendicazioni non hanno cambiato lo scenario. Operai e lavoratori del 1870 rimarrebbero sorpresi nel vedere una situazione che ricalca, nonostante la facciata del benessere e l’esteriorità del consumismo, una sacca, ancora vasta, di povertà salariale.
La povertà è anche nelle opportunità e in quel vortice di diseguaglianze che devasta l’individuo, nella scarsa qualità del lavoro e nella costrizione, di chi ha dedicato tempo e sacrificio per la propria formazione, di accettare occupazioni di livello inferiore e mal pagate. Dai numerosi dati del mondo del lavoro, emergono, in particolare, i due aspetti alla base della miseria occupazionale: instabilità (precarietà e discontinuità professionale) e orari di impiego ridotti (insufficienti a garantire la sopravvivenza). L’articolo 36 della Costituzione, comma primo, recita “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Una retribuzione insoddisfacente tende a compromettere l’autonomia e la libertà dell’individuo.
Così Papa Francesco nel 2016 “Il sangue di chi è sfruttato nel lavoro è un grido di giustizia al Signore. Chi accumula ricchezze con sfruttamento, lavoro in nero, contratti ingiusti, è una sanguisuga che rende schiava la gente. Le ricchezze in se stesse sono buone, ma sono relative. Vanno messe al giusto posto. Non si può vivere per le ricchezze È più importante un bicchier d’acqua nel nome di Gesù che tutte le ricchezze accumulate con lo sfruttamento della gente”.
Il sociologo Marco Omizzolo è l’autore del volume dal titolo “Articolo 1” (sottotitolo “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro sfruttato”) pubblicato nel luglio scorso da “Infinito Edizioni”. Il testo descrive, anche sotto il profilo storico, le diverse forme di sfruttamento che si verificano (e si sono verificate) nell’ambito di varie categorie lavorative. “Per non essere complici o indifferenti è necessario approfondire e partecipare alla vita degli sfruttati e alla loro piena e legittima domanda di giustizia e libertà”.
“L’anello debole-Rapporto 2022 su povertà e esclusione sociale in Italia” realizzato dalla Caritas, visibile al link https://www.caritas.it/wp-content/uploads/sites/2/2022/10/rapportopoverta2022b.pdf, offre numerosi dati; in particolare, riguardo al working poor, si legge “Un altro grande nodo è poi quello del lavoro. Cresce dal nostro punto di vista il disagio sociale correlato all’occupazione; quasi la metà (47,1%) dei nostri assistiti è in cerca di una prima o una nuova occupazione che di fatto stentano a trovare, anche a causa del loro basso capitale scolastico-formativo. Ci sono poi coloro che chiedono aiuto per sé o per la propria famiglia pur avendo un impiego: sono circa un quarto del totale”. I lavoratori poveri “sono quelli che ricevono un salario mensile che risulta inferiore ai 2/3 del reddito mediano (secondo la definizione OCSE) o al di sotto del 60% del salario mediano (se si considera la definizione Eurostat). Tendenzialmente i lavori a basso reddito riguardano per lo più alcuni settori specifici, come il commercio al dettaglio, i servizi alberghieri, di catering, i servizi alle persone, i lavori sulle piattaforme e tendono a concentrarsi in particolare tra i giovani, le donne (di tutte e le età) e gli immigrati. […] La condizione di coloro che, pur lavorando, sono poveri (working poor) è aumentata dal 2006 in Italia e oggi riguarda più del 13% della forza lavoro. […] Il 23,6% di quanti si rivolgono ai centri di ascolto sono lavoratori poveri, soprattutto stranieri”.
“Terzo millennio”, piattaforma digitale della UIL, riprende uno stralcio del “56° Rapporto annuale del Censis” presentato nello scorso dicembre “Working poor. Con la crisi economica durissima in corso va tenuto conto che nel settore privato oltre 4 milioni di lavoratori non raggiungono una retribuzione annua di 12.000 euro. Il lavoro dipendente non protegge più dai rischi, basti pensare che in povertà relativa si trova circa il 10% degli occupati. Per porzioni crescenti di italiani l’intreccio lineare ‘lavoro-benessere economico-democrazia’ non funziona più”. La media europea del working poor si attesta al 9,2%.
Openpolis, fondazione indipendente che cura i dati per “raccontare il mondo in cui viviamo”, al link https://www.openpolis.it/numeri/litalia-e-lunico-paese-europeo-in-cui-i-salari-sono-diminuiti-rispetto-al-1990/, riporta “Nei Paesi baltici (Estonia, Lettonia e Lituania) il salario medio annuale è più che triplicato negli ultimi 25 anni, mentre in alcuni Paesi dell’Europa centrale (Ungheria, Slovacchia) è raddoppiato. L’Italia è l’unico Paese in cui invece è diminuito”.
Un approfondimento molto importante sull’argomento è la “Relazione del gruppo di lavoro sugli interventi e le misure di contrasto alla povertà lavorativa in Italia”, visibile al link https://www.lavoro.gov.it/priorita/Documents/Relazione-del-Gruppo-di-lavoro-sugli-Interventi-e-misure-di-contrasto-alla-poverta-lavorativa-in-Italia.pdf.
Non è necessario entrare nel merito politico per evidenziare come le riforme del lavoro degli anni scorsi (Treu nel 1997, Biagi nel 2003, la Fornero nel 2012 e Renzi dal 2014 al 2016), varate con l’intenzione di agevolare le assunzioni e di rendere più agile il mercato dell’occupazione, si siano risolte, purtroppo, in un indebolimento di carattere generale e in una riduzione delle tutele. Si sono create due tipologie: una, più “fortunata”, di lavoratori con contratto a tempo indeterminato e full time, l’altra che si arrabatta con il tempo parziale e per accordi a progetto, a termine, intermittenti. Per quest’ultima, pesa anche l’insicurezza e la scarsa regolarità nelle scadenze retributive. Promemoria pragmatico per gli economisti: i lavoratori poveri sono costretti a ridurre drasticamente le spese, consumano meno, pagano meno tasse, non alimentano il PIL.
L’auspicio è in un cambio deciso di prospettiva (che parta anche dall’UE), in cui il lavoro a tempo indeterminato non sia considerato un male per la società e che, al di là dei colori politici e delle misure tampone, di sgravi a scadenza, possa costituire una piattaforma base di giusta retribuzione e di correlata dignità personale. Occorrono riforme definitive per strutture giuste alle fondamenta, non sussidi, ammortizzatori a tempo e pezze correttive legate all’emergenza. L’aiuto per l’immediato è importante ma occorre essere lungimiranti, impedire la continuità del precariato e pianificare per il futuro, senza rincorrere a fatica.
Il web, le opportunità offerte dall’informatica e dalle telecomunicazioni, devono essere la frontiera di partenza per una nuova rivoluzione lavorativa in grado di offrire salari decenti. L’individuo posto ai margini viene considerato, a volte, invertendo la locuzione: da “working poor” a “poor worker”; nel primo caso si pone l’accento sulla qualifica di lavoratore, nel secondo la prevalenza è sull’indigenza (più povero che lavoratore). Le ripercussioni sul piano psicofisico, per questa condizione di difficoltà mista a insicurezza, sono devastanti. Importante è ricordare gli aspetti umani, psicologici e sociali. L’esclusione e l’autoesclusione sociale ne sono una conseguenza.
L’impossibilità o la difficoltà di accedere ai beni essenziali è una calamità che investe l’individuo sin dalla tenera età e può accompagnarlo alla vecchiaia. La povertà retributiva è trasversale e non conosce pietà: colpisce bambini e ragazzi (di riflesso), giovani, famiglie e anziani. Travolge le speranze, annichilisce le prospettive e oscura le identità: occorre essere forti per resistere a tali pressioni, a tale svuotamento della personalità. Non tutti vi riescono. Va ricordato che l’attuale società dell’esteriore, che emargina chi non consuma, chi non ostenta sui social in tema di moda, bellezza, automobili, telefoni cellulari e viaggi, puntella e consolida l’esclusione, la messa al bando.
I lavoratori poveri esistono da sempre, purtroppo. Tale assunto, tuttavia, non deve costituire una sorta di giustificazione. Ora, le battaglie per l’uguaglianza, che tanti passi hanno compiuto negli ultimi decenni, devono essere supportate dall’economia. La retorica si è esaurita. Non si tratta solo di numeri (di dolenti cifre e risorse) ma di persone.