Culle vuote e contratti aziendali: il welfare delle imprese

La discesa della fecondità è accompagnata da una rinnovata spinta alla posticipazione

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Foto di Mathieu Stern su Unsplash

Rafforzare il welfare come antidoto al calo demografico. A partire dalle aziende.  Dal 2008, ultimo anno in cui si è assistito in Italia a un aumento delle nascite, il calo è di 197mila unità (-34,2%). Il numero medio di figli per donna scende così da 1,24 nel 2022 a 1,20 nel 2023, avvicinandosi di molto al minimo storico di 1,19 figli registrato nel lontano 1995. La riduzione della natalità riguarda indistintamente nati di cittadinanza italiana e straniera. Questi ultimi, pari al 13,3% del totale dei neonati, sono 50mila, 3mila in meno rispetto al 2022.  La diminuzione del numero dei nati residenti del 2023 è determinata sia da una importante contrazione della fecondità, sia dal calo della popolazione femminile nelle età convenzionalmente riproduttive (15-49 anni), scesa a 11,5 milioni al 1° gennaio 2024, da 13,4 milioni che era nel 2014 e 13,8 milioni nel 2004. Anche la popolazione maschile di pari età, tra l’altro, subisce lo stesso destino nel medesimo termine temporale, passando da 13,9 milioni nel 2004 a 13,5 milioni nel 2014, fino agli odierni 12 milioni di individui. Tra le cause lo scarso sostegno alla genitorialità. L’inverno demografico ha pesanti effetti sociali e lo si vede anche in ambito economico. A inizio 2024 oltre un quarto delle imprese associate a Confindustria (il 25,2%) applica un contratto aziendale. La diffusione è maggiore nell’industria in senso stretto (33,4% delle imprese) rispetto ai servizi (18,1%) e nelle imprese più grandi (76,9% in quelle con 100 o più dipendenti) rispetto a quelle più piccole (11,6% fino ai 15 dipendenti).

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Foto di Anthony Fomin su Unsplash

Conciliazione-Welfare

Le materie regolate dal contratto aziendale, quando presente, sono principalmente i premi di risultato collettivi (nel 60,4% dei contratti). La conversione dei premi di risultato in welfare (47,7%). L’orario di lavoro (46,7%). L’offerta di servizi di welfare aggiuntivi (39%). La conciliazione vita-lavoro (36,7%). Nel 2023 in oltre il 60% delle imprese sono stati effettivamente erogati i premi variabili collettivi previsti dal contratto aziendale. Inoltre, nel 40,2% delle imprese mediamente un terzo dei lavoratori ha deciso di convertire i due terzi del premio ricevuto in welfare. L’indagine Confindustria sul lavoro 2024 è il rapporto annuale del centro studi di via dell’Astronomia. Emerge anche che oltre la metà (il 51,3%) delle imprese associate ha adottato iniziative di welfare, con la quota che sale al 57,0% nell’industria e si ferma al 43,7% nei servizi. La diffusione del welfare cresce con la dimensione aziendale: è maggiore nelle imprese con più di 100 addetti (78,7% la media complessiva, che arriva all’85,2% per quelle industriali), mentre è del 58,8% in quelle medie e del 40,9% in quelle con al massimo 15 addetti”.

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Foto di Luma Pimentel su Unsplash

Welfare da difendere

Da ormai un decennio, l’Italia si trova ad affrontare una lenta ma costante crisi demografica. Ma le conseguenze iniziano a vedersi ora e saranno ancora più evidenti nei prossimi anni. Un rapporto di Area Studi Legacoop e Prometeia rivela che il sistema produttivo italiano perde circa 150.000 lavoratori, e li perderà almeno fino al 2030. Un campanello d’allarme, mentre il Paese si avvicina al punto di non ritorno. Intervenire con politiche che incentivino la natalità, il welfare aziendale e migliorino le competenze dei giovani è ormai indispensabile. Questi ragionamenti valgono soprattutto per i settori più esposti alle conseguenze della crisi demografica, che significa non solo culle sempre più vuote ma anche popolazione sempre più anziana. Il declino demografico italiano è radicato in un lungo periodo di basse nascite e in un aumento dell’età media della popolazione. Anche se diventato preoccupante solo negli anni Duemila, il tasso di natalità è iniziato a scendere già dal 1980. Da quell’anno al 2022, le nascite si sono più che dimezzate passando da 800.000 nuovi nati a meno di 400.000. La crisi è accentuata dal fatto che la generazione dei baby boomer, nata negli anni ’60 e ora in fase di pensionamento, è di gran lunga più numerosa rispetto ai giovani che entrano nel mercato del lavoro e reggono il sistema pensionistico.

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Foto di Jill Wellington da Pixabay

Trend demografico

Siccome la matematica non è un’opinione, il ministro dell’Economia e delle Finanze Giancarlo Giorgetti ha ribadito: “Parliamo molto spesso in questa aula di pensioni, sarebbe il caso di cominciare a parlare di quello che è il trend demografico del Paese. Nessun sistema pensionistico è sostenibile in un quadro demografico come quello attuale”. Parole che il titolare del Mef aveva pronunciato quasi identiche già un anno fa. La perdita annuale di 150.000 lavoratori è amplificata dalle uscite pensionistiche, che hanno raggiunto le 600.000 all’anno. Mentre le nuove assunzioni si fermano a circa 450.000. Il trend è semplice quanto devastante per l’economia italiana. Più è alta l’età media della popolazione, più sono anziani i lavoratori. Di conseguenza c’è un sostenuto numero di pensionati, che non riusciamo a rimpiazzare con le nuove generazioni. Per questo, il governo Meloni ha fortemente disincentivato l’uscita anticipata dal lavoro e, a guardare i dati Inps, l’obiettivo è stato raggiunto. L’introduzione di Quota 130 ha avuto un impatto evidente sulle scelte degli italiani. Nei primi sei mesi del 2024, l’istituto ha registrato un calo del 14,15% nelle pensioni anticipate rispetto allo stesso periodo del 2023, con soli 99.707 nuovi assegni erogati contro i 116.143 dell’anno precedente.

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Foto di Sandy Millar su Unsplash

Quota 103

Per la misura Quota 103 sono stati stanziati nella legge di Bilancio per il 2024 149 milioni di euro per il 2024. Grazie al fatto che l’allungamento della finestra mobile ha portato le prime uscite ad agosto), 835 milioni nel 2025 e 355 nel 2026. La scarsa adesione alla misura, riferisce Repubblica, è legata alla penalizzazione economica che si avrebbe con il ricalcolo contributivo e alla scarsa convenienza in termine di anticipo rispetto all’uscita con 42 anni e 10 mesi indipendentemente dall’età (41 e 10 per le donne). Se si accede alla pensione con Quota 103, infatti, è necessario avere 41 anni di contributi e aspettare 7 mesi di finestra mobile (9 per il pubblico impiego) si anticiperebbe quindi di appena un anno e sei mesi rispetto all’uscita con 42 anni e 10 mesi che salirebbero a 43 anni e un mese con i tre mesi di finestra mobile previsti per questa misura. L’anticipo, precisa Repubblica, si riduce ancora per i lavoratori pubblici (solo di un anno e quattro mesi) e in particolare per le donne che uscirebbero con Quota 103 con 41 anni e 9 mesi. E con l’anticipata indipendente dall’età con 42 anni e un mese.WelfareFoto di Heike Mintel su Unsplash

Culle vuote

La contrazione del numero medio di figli per donna interessa tutto il territorio nazionale. Nel Nord diminuisce da 1,26 figli per donna nel 2022 a 1,21 nel 2023, nel Centro da 1,15 a 1,12. Il Mezzogiorno, con un tasso di fecondità totale pari a 1,24, il più alto tra le ripartizioni territoriali, registra una flessione inferiore rispetto all’1,26 del 2022. In tale contesto, riparte la posticipazione delle nascite, fenomeno di significativo impatto sulla riduzione generale della fecondità. Dal momento che più si ritardano le scelte di maternità più si riduce l’arco temporale disponibile per le potenziali madri. Dopo un biennio di sostanziale stabilità, nel 2023 l’età media al parto si porta a 32,5 anni (+0,1 sul 2022). Tale indicatore, in aumento in tutte le ripartizioni, continua a registrare valori nel Nord e nel Centro (32,6 e 32,9 anni) superiori rispetto al Mezzogiorno (32,2), dove però si osserva l’aumento maggiore sul 2022 (era 32,0). Passata la turbolenta fase pandemica e immediatamente post-pandemica, a cui si devono attribuire parte delle irregolari variazioni congiunturali rilevate, la discesa della fecondità sembra riprendere ovunque, accompagnata da una rinnovata spinta alla posticipazione. Nord e Mezzogiorno, dopo aver registrato lo stesso livello di fecondità nel 2022, si discostano nuovamente. Il Mezzogiorno, dopo venti anni, torna ad avere una fecondità superiore a quella del Centro-nord.

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Foto di Natalya Zaritskaya su Unsplash

Senza supporto

Non è nemmeno di supporto alla natalità, almeno non più come un tempo, l’andamento dei matrimoni, 183mila nel 2023 (-6mila sul 2022). Tra questi risultano in forte riduzione quelli celebrati con rito religioso (-8mila) mentre aumentano quelli celebrati con rito civile (+2mila). Complessivamente, nel 2023 il tasso di nuzialità continua lievemente a scendere, portandosi al 3,1 per mille dal 3,2 del 2022.    Il Mezzogiorno continua a essere la ripartizione con il tasso più alto, 3,5 per mille contro 2,9 per mille di Nord e Centro. Allo stesso tempo è però l’area in cui la contrazione sul 2022 risulta maggiore.