Una pandemia impone una riflessione. E non solo nel periodo di chiusura forzata nella propria abitazione. Perché anche il lockdown, declinato attraverso i mezzi di comunicazione di cui l’umanità oggi è dotata, diventa un’occasione per aprire una finestra sul mondo. Senza dimenticare che, in ogni angolo del Pianeta, si gioca parte del grande match per la sostenibilità e la conservazione, per la tutela di quegli ecosistemi che garantiscono alla vita di scorrere. Anzi, di fare essi stessi da garanti per la sopravvivenza delle specie sul nostro Pianeta. C’è chi dice che la chiusura forzata delle attività abbia dato respiro alla salute terrestre, funestata da decenni di progresso incontrollato che ha innalzato gli indici di sviluppo a scapito delle risorse essenziali per assicurare all’uomo il proprio futuro. La sfida climatica, fervente prima dell’emergenza sanitaria, è rimasta sospesa, e da tante parti chiedono che non sia dimenticata. Perché il rischio è ancora una volta quello. Nel frattempo, però, la pandemia ha attraversato i mesi senza che, in alcuni contesti, la presa di coscienza sul problema fosse sufficiente a scongiurare comportamenti non tanto di tutela, quanto di rispetto. O ad aprire le necessarie finestre di riflessione su realtà che, già prima del coronavirus, vivevano in condizioni di estrema difficoltà.
Questione di educazione
Il caso che ha di fatto sconvolto il mondo, quello dell’elefantessa uccisa (assieme al suo piccolo in grembo) in India, dopo aver ingerito una trappola esplosiva mortale nascosta in un frutto, sembra una diretta conseguenza di una di queste tragedie. Una di quelle situazioni in cui le dimenticate realtà di frontiera vedono nell’animale il nemico da abbattere, colui in grado di arrecare danno al proprio raccolto, generando una barbarie che, in qualche modo, rappresenta una sconfitta per tutti noi. Una collisione fatale, in cui forse le azioni di tutela non sono state sufficienti a scongiurare l’irreparabile. Il punto, ancora una volta, è il raggiungimento del giusto equilibrio fra uomo e natura, per far sì che non siano delle azioni da carnefici a risolvere la legittima convivenza. La sfida forse più importante per il conservazionismo di ambienti e biomi. E di coloro che li abitano, uomini e animali: “Non è possibile – aveva spiegato a Interris.it la biologa del Jane Goodall Institute, Daniela De Donno – salvaguardare il patrimonio naturale, la biodiversità senza lavorare con e per le popolazioni locali. E’ fondamentale che gli interventi di conservazione della natura siano sempre accompagnati da progetti rivolti alle comunità locali. Abbiamo sempre e ovunque, con progetti di conservazione degli ambienti delle antropomorfe, sostenuto una crescita sostenibile delle popolazioni locali. Conservazione, educazione, sostegno, sviluppo e lavoro con le comunità locali. Dagli interventi di potabilizzazione delle acque all’occuparsi dei più piccoli di queste realtà territoriali, soprattutto attraverso l’educazione”.
Conservazione, un principio di base
Un concetto fin troppo chiaro quello del conservazionismo, così come le azioni necessarie da mettere in campo affinché riesca nel suo scopo. Eppure, forse più di altri, quello che più si scontra con condotte deleterie, che antepongono l’interesse al rispetto e, di conseguenza, accantonano ogni valore umano in nome di quelli materiali: “Bisogna sempre ricordare il principio che ognuno di noi qualcosa può fare. Bisogna cercare di mantenere la dignità di quelle parole ascoltate durante questo periodo e non dimenticare che il nostro rapporto con la natura è alla base di tutto. Se non rivediamo alcuni comportamenti, e chi ci guida deve per primo adottare le misure di rispetto della natura”.
Equilibri fragili
Va da sé che l’educazione al rispetto e l’operare in favore dell’equilibrio con la natura siano concetti da armonizzare. Lo spaccato di sofferenza aperto dal Covid-19 potrebbe forse essere corrisposto da una più chiara visione delle cose e di quale, realmente, sia l’importanza del rapporto uomo-natura. E, soprattutto, di quanto l’alterazione degli equilibri vada a provocare conseguenze difficilmente soppesabili. La morte dell’elefantessa indiana in questo senso è indicativa, ma anche l’uccisione di Rafiki, gorilla di montagna di 25 anni, vittima dei bracconieri in Uganda, costituisce un caso limite: “La morte di Rafiki lascia il gruppo instabile e c’è la possibilità che possa disintegrarsi”, ha spiegato la Bbc citando l’Uganda Wildlife Authority (Uwa). Il che, in sostanza, significa che lo spostamento del delicato asse di galleggiamento può portare alla catastrofe. Vale per il clima, ma anche per tutto il resto. Uomo compreso.