Bambini e Aids, un binomio che non vorremmo esistesse. Ma la realtà è purtroppo un’altra: sono milioni nel mondo i minori affetti dai virus dell’immunodeficienza umana (Hiv), due specie di Lentivirus (un sottotipo di retrovirus) che causano un’infezione che, se non trattata, provoca la sindrome da immunodeficienza acquisita (Aids). In tempo di pandemia da un altro tipo di virus – il Covid-19 – il mondo sembra essersi “dimenticato” dei quasi 38 milioni di persone che convivono con l’Hiv. In quasi 40 anni – l’Aids è stato individuato dal Centers for Disease Control and Prevention (CDC) nel 1981 e la sua causa, l’Hiv, è stata identificata nel 1983 – questo virus ha causato oltre 770mila morti, secondo le stime ufficiali UnAids. Tra questi milioni di malati, non mancano i bambini, la stragrande maggioranza dei quali vive in Africa in condizioni economiche e igieniche precarie. Spesso questi bimbi non hanno accesso alle cure o ai test per individuare la malattia a causa dei costi troppo alti. Viviamo dunque un paradosso: coloro che avrebbero il maggior bisogno di medicine, analisi e test, in realtà hanno molte meno opportunità di acquistarle e di usufruirne. Nei Paesi ricchi la situazione è diametralmente opposta.
Povertà e diritto alla salute
Negli ultimi anni sono stati sviluppati numerosi test per misurare e caratterizzare la carica virale residua, cioè la quota di HIV-1 che rimane dentro le cellule dei pazienti sottoposti a terapia antivirale. Misurare il residuo virale è fondamentale per valutare l’efficacia del trattamento ricevuto e la possibilità di inserire questi bambini in nuove sperimentazioni finalizzate all’eliminazione totale del virus. Finché non ci si riuscirà, con l’aiuto di nuove terapie, nessun paziente potrà considerarsi guarito. L’uso di questi test nei Paesi in via di sviluppo, dove si concentra la maggior parte di casi pediatrici (un milione e mezzo su un totale di quasi due milioni), è stato finora minimo. Il limite principale al loro utilizzo è rappresentato dai costi, dalla quantità di sangue che queste analisi richiedono e dalla loro difficile applicabilità nelle zone meno attrezzate da un punto di vista clinico e ospedaliero. Basti pensare che la maggior parte di questi sono di virologia molecolare. Vuol dire che, dopo il prelievo di sangue, servono dei passaggi di laboratorio per isolare le componenti ematiche, lavorarle e analizzare i risultati con complessi software bio-informatici. Per avere la risposta passano almeno diversi giorni e i costi sono spesso proibitivi.
Test economico
Ma adesso qualcosa è cambiato. L’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù ha infatti recentemente creato un test per valutare la carica virale residua nei bambini affetti da Hiv molto più semplice, rapido ed economico rispetto a quelli già esistenti. Nello specifico, il nuovo test ideato dall’equipe di Immunoinfettivologia del Dipartimento Pediatrico Universitario Ospedaliero del Bambino Gesù è praticamente istantaneo e può essere effettuato ovunque. Consiste in una piccola striscia (o stick) di plastica rigida, su cui sono apposte determinate sostanze di reazione, come quelle comunemente usate per il monitoraggio domestico, ad esempio della glicemia. La striscia è numerata da 0 a 10, dove zero rappresenta la minima carica virale residua e 10 quella massima. Basta una goccia di sangue del paziente e in pochi minuti si coloreranno le tacche corrispondenti alla carica virale rilevata. Un test così semplice e sicuro da poter essere effettuato anche in condizioni improponibili per i classici test, come un ospedale da campo o un camper medico. L’affidabilità del nuovo test supera il 95% ed è pressoché sovrapponibile a quella dei test più complessi. Costa inoltre poche decine di euro contro le centinaia degli altri test. Questo nuovo progetto potrà aiutare soprattutto i Paesi più poveri in cui la malattia è ancora fortemente presente.
Lo studio
Lo studio sulla efficacia del test è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica Lancet ed è il risultato di un progetto di ricerca no-profit promosso da EPIICAL, il più grande consorzio internazionale di scienziati coinvolti nella gestione e trattamento dell’Hiv pediatrico e da
US Military HIV Research Program (Mhrp). È basato sui dati prodotti in precedenti lavori eseguiti su coorti italiane e americane in questo campo. La ricerca ha coinvolto più di 330 pazienti con infezione verticale da Hiv (che riguarda cioè bambini nati infetti per via materna) e che hanno iniziato la terapia antiretrovirale fin da piccoli. Il test è valido anche negli adulti. Questo nuovo test rappresenta quindi un grande passo avanti per rendere realistico quel diritto alla salute che costituisce parte integrante dei diritti umani fondamentali internazionalmente riconosciuti. In merito, In Terris ha intervistato il dott. Paolo Palma, responsabile dell’unità di ricerca in infezioni congenite e perinatali dell’Ospedale Pediatrico Bambin Gesù di Roma.
Dott. Palma, iniziamo con qualche numero e costi: quanti sono i bambini malati di hiv nel mondo?
“Secondo le cifre di UnAids, attualmente ci sono circa 1 milione e 800mila bambini sieropositivi nel mondo: vivono quasi tutti in Africa subsahariana, ma crediamo che la cifra sia molto sottostimata. Infatti, in molti Paesi africani è molto complesso fare la diagnosi perché l’accesso alle analisi e alle cure non è garantito a tutti, a causa della povertà endemica e di complesse problematiche sociali e politiche di alcune Nazioni”.
Cosa rappresenta questo nuovo test nel panorama mondiale della lotta all’Hiv?
“E’ una nuova strategia di screening che rappresenta un’importante innovazione per definire quali bambini arruolare in protocolli per la cura dell’HIV-1. Come, per esempio, il vaccino terapeutico pediatrico messo a punto dal Bambino Gesù in collaborazione col Karolinska Instituet di Stoccolma. I risultati permettono infatti di ricostruire la storia clinica dei singoli pazienti che spesso, nei Paesi in via di sviluppo o molto poveri, non posseggono una vera e propria cartella clinica”.
Passiamo alla situazione italiana. Quanti bambini sono affetti da Hiv in Italia e quanti ne seguite voi?
“In Italia l’infezione da Hiv nei bambini è una eventualità rara, accada circa una volta o due l’anno in ambito pediatrico. Qui al Bambin Gesù seguiamo 110 casi da 0 a 18 anni, insieme alle loro mamme o tutori legali, come i genitori adottivi o genitori di casa-famiglia”.
Qual è la principale via di infezione nei bambini e nei ragazzi?
“Nella quasi totalità dei casi è quella ‘verticale’, la mamma che trasmette l’infezione al bambino durante la gravidanza, in genere in epoca perinatale, vale a dire poco prima del parto. Esistono comunque dei protocolli di prevenzione efficaci e collaudati che garantiscono il blocco della trasmissione del virus. Perciò il neonato nasce sano e la madre può partorire con il metodo naturale; fino a pochi anni fa, il consiglio era invece quello di far nascere il bambino con il cesareo. In questo, la ricerca sulle terapie precoci ha fatto grandi passi avanti”.
Cosa è la carica virale?
“La carica virale misura la quantità di virus presente nel sangue. L’assenza del virus nel sangue – la carica virale ‘zero’ – non significa però essere guariti dall’Hiv. Il virus è infatti ancora presente all’interno delle cellule, anche se i soggetti con viremia bassissima non trasmettono il virus ad altre persone, come i figli o il partner”.
Cosa è invece carica virale residua?
“Il virus c’è ma non si vede dal sangue perché è dentro le cellule. Questa quota di virus ancora presente nell’organismo è definita carica virale residua o reservoir viral – riserva virale. Più è bassa la carica residua, più è probabile la ‘remissione virologica’: se un paziente interrompe la terapia, ha una maggior possibilità di non riavviare una replicazione virale in tempi rapidi”.
Si può parlare di guarigione dall’Hiv?
“Non ancora, proprio a causa della presenza residuale che rimane presente, nonostante le cure, all’interno di determinate cellule. Da qui, l’importanza di calcolarne con precisione la quantità. Sono anni che esistono test specifici, ma fino ad oggi erano complessi, richiedevano macchinari specifici e inoltre costavano molto. Di fatto, rimanevano esclusi tutti quei soggetti senza un reddito importante. Considerando che l’Hiv è diffuso principalmente in Africa tra le popolazioni più povere, è ovvio che finora test simili non venivano quasi mai praticati, anche per l’assenza di strumentazione adeguata nelle zone rurali. Ora, invece, questo è possibili, proprio pensando ai più poveri della Terra“.