Dopo oltre cinque settimane di guerra in Ucraina, secondo i dati diffusi dall’Alto Commissariato dell’Onu per i Rifugiati, vi sono oltre 4 milioni di rifugiati fuggiti dal paese, a cui bisogna aggiungere ben 6,5 milioni di civili che sono sfollati interni. Tra questi sono inclusi 4,3 milioni di bambini. Insomma, questo conflitto, sta provocando grandi sofferenze tra la popolazione civile le cui conseguenze si ripercuotono su scala internazionale andando a colpire la sfera sociale, economica e politica ed in particolare coloro che già vivono in situazioni di povertà. Interris.it, in merito a questi temi, ha intervistato il prof. Roberto Rossini, sociologo, già presidente nazionale delle Acli e attuale portavoce nazionale dell’Alleanza contro la Povertà.
L’intervista
Quali sono secondo lei le peculiarità della guerra in Ucraina rispetto agli altri conflitti dell’età contemporanea?
“Le peculiarità sono molte, certamente è un conflitto che si gioca su uno scacchiere geopolitico non regionale, per quanto sia territorialmente regionalizzato in Ucraina. È un conflitto ad impatto globale perché chiama in causa le grandi superpotenze del nostro mondo, ossia la Federazione Russa, gli Stati Uniti e implicitamente la Cina, apparentemente lontana sicuramente vicina, capace di meditare, tessere e giocare la sua partita in un contesto complesso e in movimento. Dunque, è una guerra potenzialmente molto pericolosa. L’altra questione che si pone è la violazione del diritto internazionale, sulla quale sarà necessaria una riflessione a livello di Onu, perché non va bene che l’Organizzazione non possa intervenire a causa di un veto russo. Cos’è oggi l’Onu? Che compiti e che poteri ha? Così organizzata risulta non efficace, non è in grado di rispondere a crisi di questa natura. Si pone il tema della riforma di questo importantissimo organismo internazionale: non dobbiamo fare passi indietro, ma passi in avanti. Per analogia possiamo dire che un terzo tema riguarda il ruolo dell’Europa. Un conflitto che nasce in Europa richiede una risposta molto forte da parte dell’Europa stessa. Finora l’Unione ha risposto bene, compatta, unita, ma forse è l’occasione per fare un passo di più. All’Unione stessa serve un salto di qualità per arrivare il più vicino possibile ad una sorta di confederazione. Diversamente è davvero difficile provare a gestire una crisi di queste proporzioni con tanti ministri degli esteri differenti. L’ultima considerazione che rende questo conflitto così particolare è che in esso si confrontano due schemi differenti di sovranità, la democrazia e la democratura. Dalla caduta del Muro di Berlino in avanti ci siamo illusi che la democrazia liberale fosse l’unico modello di governo che gradualmente si sarebbe affermato nel mondo. La democrazia si trova ora di fronte a una nuova minaccia, perché è chiaro che la democratura – che c’è in Russia e in Cina – ci pone di fronte ad un confronto tra due diversi modelli di sovranità. Ciò, per certi aspetti, ricorda molto lo scontro della guerra fredda degli anni ’50 e ’60, ossia quando le due superpotenze Usa e Urss, si confrontavano non solo dal punto di vista militare ma anche nell’interpretazione del concetto di sovranità. Dunque, la guerra in Ucraina non si gioca solo in Ucraina. È per questo che i bilaterali tra russi e ucraini appaiono inadeguati”.
Il mondo dell’associazionismo – secondo Lei – cosa può fare per lenire le ferite morali e materiali di questo conflitto sui civili inermi?
“Certamente aprire il più possibile le porte per accogliere le persone che fuggono da questa guerra. Solidarietà è la parola-chiave: solidarietà e fraternità internazionale, umanità fraterna. Non credo che ciò sia sufficiente e occorra fare un secondo passaggio. È del tutto necessario che l’associazionismo – soprattutto quello che ha dei contatti di tipo internazionale – si muova per ricostruire reti di collegamento internazionale perché tutto ciò che ho detto in riguardo al confronto degli schemi di sovranità ha anche a che fare con la vivacità della società civile. Esiste una società civile a questo mondo con organizzazioni e associazioni, le quali bisogna che si colleghino il più possibile per fare ciò che i poteri politici non riescono ad attuare e lenire così alcune asperità”.
Quale può essere il ruolo dell’Unione Europea per incentivare il processo di pace?
“L’Unione Europea certamente ha un ruolo importante. Dal punto di vista economico le sanzioni sono state un passaggio grave ma decisivo per far capire che la guerra è un disastro per tutti, anche per l’economia. Credo che l’Europa debba fare un passo in avanti in termini di unità, sia sotto il profilo militare, per esempio con un esercito europeo, sia sotto il profilo dell’autonomia energetica. Oltre a ciò, l’Unione deve avere il potere di fare politica in modo pieno e unitario per intervenire positivamente sulle complessità e sulle tragedie che osserviamo. L’Ucraina vive una situazione complessa, storicamente e geograficamente: bisogna riconoscerle una specificità che consenta di ristabilire un equilibrio e una pace duratura. Ma occorre che si vigili sul rispetto dei trattati. La pace si fonda sul diritto e il diritto deve essere rispettato. Pacta sunt servanda. Putin se ne deve fare una ragione”.
In qualità di portavoce nazionale dell’Alleanza contro la Povertà quali sono i suoi auspici per il futuro in merito alla vicenda ucraina?
“La guerra alla fine la pagano i poveri. Il Papa – inascoltato – e altri osservatori hanno ribadito questa semplice verità di fatto. La guerra esaspera le povertà. Noi veniamo da una situazione di pandemia preceduta da una crisi economica ed ora ecco una guerra. La situazione, dagli inizi degli anni 2000 in avanti è sempre più tesa e difficile: siamo veramente molto preoccupati, anche perché sulle risorse non c’è mai chiarezza. A volte si dice che si raschia il fondo del barile poi di colpo si trovano altri soldi per aumentare le spese militari. Occorre quindi che si pensi seriamente a come rispondere alle situazioni di povertà che troveremo in misura sempre crescente. Occorre aprire un serio dibattito politico sulle priorità, perché se di volta in volta mettiamo in competizione le spese dei diversi ambiti, allora sappiamo come va a finire per quelle riferite ai più poveri…”.