Nel difficile quartiere Sanità di Napoli, in due strutture sequestrate alla Camorra, l’associazione Putéca Celidònia ha creato un’oasi felice di cultura, emozioni, formazione e progresso. Lo strumento d’arte che le consente di raggiungere i suoi obiettivi è il teatro, “un non luogo che permette di essere ovunque: la cultura deve assumere un ruolo di rilievo per chi abita questi territori” racconta a Interris.it Emanuele D’Errico, presidente dell’associazione.
Come nasce l’associazione Putéca Celidònia?
“Putéca Celidònia nasce nel settembre 2018 dall’incontro tra sei ex allievi della Scuola del Teatro Stabile di Napoli i quali, dopo aver condiviso lo stesso percorso formativo, scelgono di unirsi in un gruppo di lavoro che si allarga a nuove maestranze che ne compongono l’arcipelago artistico e tecnico. Puteca è in dialetto napoletano la bottega. La celidonia invece è una pianta erbacea che nasce spontanea nelle zone abbandonate del bacino del Mediterraneo, pertanto viene definita infestante. Con l’unione di queste due parole diamo un nome al nostro obiettivo e a come vediamo noi il teatro: un luogo che custodisce e rielabora tutto ciò che non è tangibile al fine di incontrarsi e riconoscersi in un processo catartico. Un’occasione possibile di apertura con nuovi punti di vista sull’esistenza, occhi nuovi sul mondo, talvolta inaspettati”.
Di quanti ragazzi si compone il progetto?
“La compagnia è composta da Clara Bocchino, Marialuisa Diletta Bosso, Emanuele D’Errico, Teresa Raiano, Dario Rea, Umberto Salvato e nel 2018 prende in gestione due beni confiscati alla camorra nel Rione Sanità, a Napoli. Due tipici bassi napoletani, che diventano luogo di accoglienza e di restituzione al territorio e ai cittadini”.
Durante questi anni come siete cresciuti?
“Oggi la nostra realtà è diventata molto più di quello che ci aspettavamo. Oltre alle numerose attività che svolgiamo sul territorio della Sanità, teniamo un corso di teatro nel Carcere di Nisida, abbiamo tenuto un laboratorio con i richiedenti asilo dell’ex-SPRAR di Caserta, teniamo un corso di teatro per bambini nel bosco di Portici e quest’estate condurremo due campus teatrali intensivi nel quartiere Forcella di Napoli e ad Alvito nel Lazio”.
Qual è la condizione del quartiere Sanità di Napoli?
“Il quartiere Sanità è un quartiere bellissimo e in grandissima crescita. Noi lo guardiamo con gli occhi di chi prova a fare arte per le persone e con le persone, incoraggiati dal grande fermento artistico e sociale che da anni le varie associazioni presenti sul territorio stanno portando avanti”.
Siamo all’intero di luoghi da sempre dominio della criminalità organizzata?
“Si è molto spaventati quando si pensa a questi quartieri del napoletano proprio perché fino a pochi anni fa sono stati i principali centri di riferimento della camorra ed è in quartieri del genere che la cultura deve assumere un ruolo di rilievo per chi lo abita. La nostra sede operativa è appunto un bene confiscato alla criminalità organizzata e quando abbiamo messo piede per la prima volta nel quartiere lo abbiamo fatto in maniera delicata, per permettere a chi lo abitasse di non sentire la presenza di un estraneo. Il tempo infatti è stato ciò che ci ha permesso di realizzare tutte le nostre attività, grazie all’enorme fiducia guadagnata in silenzio, con il sudore e l’amore per l’altro”.
Qual è il vostro rapporto con il territorio?
“Naturalmente il lavoro che svolgiamo in un contesto come quello della Sanità assume un senso totalmente diverso. Quello che ci attraversa è un continuo scambio osmotico con il territorio che abitiamo. Noi ci spendiamo tanto per il territorio e soprattutto per le persone, ma le persone e il territorio influenzano costantemente il nostro lavoro artistico offrendoci opportunità di osservazione e di confronto unici che soltanto lì esistono”.
Cosa è emerso durante la pandemia dal quartiere Sanità?
“Ci sono quartieri in cui la povertà e l’assenza di mezzi diventano le principali cause di disperazione e delinquenza. La Sanità è uno di quei posti e in questo periodo di emergenza sanitaria lo abbiamo potuto vivere da vicino. Ci sono bambini che non hanno la linea internet, i computer. Ci sono bambini che hanno vissuto il lockdown in abitazioni minuscole in famiglie numerose. È da loro che dobbiamo ripartire, è di loro che dobbiamo prenderci cura e ritrovare ciò che si è perduto partendo dal teatro e dalla cultura. Purtroppo, le istituzioni in questo senso sono assenti”.
Il vostro è un progetto di giovani che parla ai giovani, quale impronta volete lasciare nel vostro territorio?
“I due beni che gestiamo nel quartiere Sanità sono stati affidati all’APS #Opportunity ed il progetto, che ha incluso il nostro gruppo sin dall’inizio, da cui siamo partiti è stato restituire ai cittadini un posto che fosse di tutti. Sfida vinta al punto che oggi i due beni sono un presidio culturale trasversale per il quartiere. Negli anni infatti, tra le altre cose, abbiamo realizzato il primo Vicolo della Cultura in Italia con le edicole culturali, abbiamo tenuto corsi di teatro e scenografia teatrale per più di 30 bambini, organizzato corsi di favole, sportello di ascolto per i cittadini, assistenza legale; abbiamo dato vita al format ‘A voce d’’o vico, una rassegna di teatro e musica dai balconi dei due locali che ha visto recitare e cantare i nostri bambini al fianco di esponenti della cultura italiana; i bambini del nostro laboratorio teatrale sono diventati un bacino per i casting napoletani al punto da girare film e serie tv con Mario Martone e per la Rai, ad esempio. Lo stesso vicolo ha subito una trasformazione incredibile grazie alle opere di Street art e ad oggi siamo al lavoro per renderlo ancora più bello”.
Un’associazione che guarda anche e soprattutto all’infanzia?
“Il sogno più grande è quello che un giorno questi stessi bambini, figli del quartiere, possano prendere il nostro posto. Il sogno è di poter vedere i bambini del territorio gestire quei luoghi e portare avanti attività culturali e sociali riappropriandosi del proprio territorio senza essere costretti a fuggire (nel migliore dei casi). Questa è l’impronta che desideriamo lasciare: condivisione, apertura, fiducia, rispetto, arte. Un piccolo seme di speranza è stato il nostro progetto D.A.D. – Dimenticati A Distanza, un format in cui i bambini del nostro corso di teatro intervistano su piattaforma digitale un esponente della cultura italiana. Un’intervista in cui il concetto di dimenticato è messo al centro. Un bambino (dimenticato) intervista un artista (dimenticato) per parlare dei dimenticati. È stato un progetto nato dalla necessità di non perdere il contatto con i bambini nonostante l’impossibilità di fare attività dal vivo. Non è stato semplice. La maggior parte dei bambini li abbiamo ritrovati peggiorati: i problemi che avevano prima del corso di teatro sono riaffiorati e in certi casi si sono amplificati per via dello sconfinamento sanitario. È stato doloroso per noi guardare in faccia la realtà: bisogna ricominciare da capo. A D.A.D. hanno partecipato tanti artisti di rilievo come Sonia Bergamasco, Lino Guanciale, Marco D’Amore, Giobbe Covatta, Teresa Ciabatti e tanti altri. La storia più bella di questo progetto è stata quella di Marco che ha intervistato Federica Fracassi. Dopo l’intervista (non appena è stato possibile) Federica ha invitato a sue spese Marco a Torino per vedere un suo spettacolo in scena allo Stabile di Torino. Così Marco si è messo sul treno ed è stato ospite di Federica che gli ha fatto fare un tour accelerato per tutta la città”.
L’associazionismo, la condivisione, il teatro possono essere delle risorse da utilizzare contro la camorra?
“Decisamente sì. Il teatro è il non luogo che ti permette di essere ovunque ed essere ogni cosa. Quello che cerchiamo di comunicare ai nostri ragazzi quando lavoriamo è che esiste un’altra possibilità, un’altra strada, un altro modo di vivere, di immaginare, di sognare, di camminare. Il teatro ci permette di esplorare tutte le strade possibili, di portarti in ogni dove. Questo è quello che più colpisce quando si lavora: la possibilità di essere libero, anche per pochi secondi. Inoltre, riconoscere ciò che ci abita e le nostre emozioni e stati d’animo ci permette di circoscrivere la realtà e prenderne distanza, guardando le cose da lontano. Tutto ciò contribuisce a far crescere nel bambino un senso critico ed una identità che gli permetteranno di scegliere. Questo è fondamentale nella fase di crescita dove le scelte che faremo condizioneranno per sempre il nostro futuro. Queste risorse, messe insieme, sono gli strumenti per aiutare questo processo di conoscenza, sono l’arma per combattere ogni forma di ingiustizia”.
Ci puoi raccontare un’esperienza con l’associazione che porterai sempre con te?
“Un’esperienza che porteremo sempre con noi è il ricordo di una bambina, Martina. Martina è una bambina molto timida e quando ha avuto inizio il laboratorio teatrale quasi non parlava. La famiglia era molto spaventata perché pensava che la bambina fosse affetta da mutismo. Pian piano, andando avanti e lavorando con noi, Martina è riuscita a recitare dai balconcini dei beni confiscati durante la rassegna ‘A voce d’’o vico. Nel pubblico c’erano i suoi familiari e guardandola recitare davanti a 200 persone, hanno iniziato a piangere increduli per ciò che accadeva. Siamo orgogliosi di ciò che stiamo costruendo e continueremo a lavorare sempre di più affinché i principi che ci muovono possano diventare prassi del vivere quotidiano”.