L’umanità oltre il buio della storia: i valori nello sport

Calcio decreto crescita

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Lo sport, insegna papa Francesco, è “un generatore di comunità”, soprattutto per i giovani perché “crea socialità”, fa “nascere amicizie”, crea condivisione, partecipazione e senso di appartenenza. Lo sport, secondo il Pontefice, è “un alleato formidabile nel costruire la pace”. Una testimonianza dei tempi bui lo dimostra. Era il terzino “metodista” della nazionale due volte campione del mondo con Vittorio Pozzo. Pur essendo molto vicino alla famiglia Mussolini, giocò i due Mondiali per meriti acquisiti sul campo. Si narra che fu lui a salvare Fulvio Bernardini, incorso nelle ire del Duce perché, dopo aver rischiato di essere investito dall’auto di questi, aveva protestato troppo vivacemente. Chiusa la carriera da giocatore, rimase a Roma come consigliere tecnico e contribuì a formare la squadra che vinse lo scudetto nel 1942. Dopo la guerra, divenne allenatore di Juventus, Napoli e Sampdoria. Nel 1959-60 vinse il Seminatore d’oro come miglior tecnico della stagione. Fu terzino della Nazionale e due volte campione del mondo nel 1934 e nel 1938. Piemontese di Vignale Monferrato, Eraldo Monzeglio giocò nel Casale, nel Bologna e nella Roma dove da direttore sportivo vincerà anche uno scudetto. Frequentando la spiaggia di Riccione, divenne amico dei figli del Duce e a un certo punto fu maestro di tennis di Benito. Popolarissimo campione, per propagandare l’impegno dell’Esercito nel conflitto indossò la divisa grigioverde, partendo per il fronte russo nel 1942. Dopo l’8 settembre seguì Mussolini a Salò ed entrò a far parte della sua segreteria.

Benito Mussolini. Credit: ALESSIA MASTROPIETRO

Sport nei tempi bui

“Combattuta vittoria dell’Italia sulla Cecoslovacchia per 2-1 presenti i Principi Reali, il Duce ed una folla imponente. I calciatori ‘azzurri’ campioni del mondo”. Questo il titolone a tutta pagina col quale la Gazzetta di lunedì 11 giugno 1934, XII anno dell’era fascista, celebra il successo della Nazionale nel “nostro” Mondiale, il secondo della storia dopo quello d’esordio in Uruguay quattro anni prima e concluso col trionfo della Celeste. In quel 1934 l’Italia del pallone, affidata alla guida di Vittorio Pozzo, ha la meglio anche sul piano organizzativo coinvolgendo otto città (Bologna, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Roma, Torino, Trieste) in una edizione cui prendono parte 16 Paesi, tre in più rispetto al 1930, fra i quali non c’è però la squadra detentrice della coppa Jules Rimet. Una ripicca per la defezione azzurra al Mondiale di Montevideo, imitata da molte rappresentanti del Sudamerica, ma non da Brasile e Argentina, che vengono eliminate al primo turno di un tabellone a sedici. Nel 1946 Eraldo Monzeglio allenò il Como, poi seguirono Pro Sesto, Napoli, Sampdoria e Juventus. La sua storia intreccia più volte quella dei protagonisti della sua epoca, attraversandone i trionfi come i momenti più bui. A lungo schierato col fascismo, contribuì però, grazie ai suoi contatti con la Resistenza, a salvare un partigiano, Giuseppe Peruchetti, ex portiere dell’Inter e della Juve colto dai fascisti a trasportare armi e condannato a morte. Ebbe come allenatore il grande Árpád Weisz, l’ebreo ungherese che terminò i suoi giorni ad Auschwitz. Assistette alla storica lite tra donna Rachele e Claretta Petacci. Sfidando i nazisti, accompagnò Edda Ciano dal marito Galeazzo, in prigione a Verona dopo il 25 luglio 1943, e conobbe agli allenamenti della Nazionale Michele Moretti, poi partigiano nella brigata che arrestò il Duce, giustiziato a Giulino di Mezzegra. Fu a Como nelle ore drammatiche, e fitte di interrogativi irrisolti, in cui la Rsi si dissolse.

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Verità e misteri

Di quel periodo Eraldo Monzeglio non parlò quasi con nessuno, nonostante le insistenze di giornalisti come Antonio Ghirelli, Gino Palumbo, Giovanni Arpino. Che cosa sapeva Monzeglio dei tentativi di Mussolini di agganciare gli Alleati, dei carteggi con Churchill, dell’oro di Dongo? Su verità e misteri della sua vita ha scavato a fondo Alessandro Fulloni, per ricostruire la prima biografia di un campione sportivo e di un protagonista dimenticato della storia italiana. La stella dell’Italia 1934, ricostruisce la Gazzetta dello Sport, era Giuseppe Meazza, una mezzala d’attacco di grande classe e dal tiro preciso e potente: a lui è intitolato lo stadio di San Siro. Poi c’erano il portiere Combi, i difensori Monzeglio, Allemandi e Monti, i centrocampisti Ferraris IV, Bertolini e Ferrari (che faceva coppia in mezzo con Meazza), le ali Orsi e Guaita e il centravanti Schiavio, che aveva più volte litigato con Monti. Per farli andare d’accordo, Pozzo li mise a dormire nella stessa camera. Sistema di gioco? Il cosiddetto “metodo all’italiana” nel quale i giocatori formavano sul campo una doppia W, invenzione di Pozzo come variante del WM in voga all’epoca. Volendo attualizzarlo, diciamo che c’erano cinque addetti alla fase difensiva e cinque prevalentemente a quella offensiva. L’Italia fece fuori al primo turno gli Stati Uniti (7-1: sorteggio amico) poi dovette giocare due partite in 24 ore contro la Spagna (1-1 e 1-0), un altro 1-0 per piegare a Milano l’Austria e il 2-1 ai supplementari nella finale. Una faticaccia. Eraldo Monzeglio è ricordato quindi come il terzino della nazionale di Vittorio Pozzo che vinse due volte il campionato del mondo, nel 1934 e il 1938. Facendo leva su un blocco di juventini il torinese e cofondatore del Torino, Vittorio Pozzo, assembla una squadra non tecnica ma tosta, in grado di reggere la fatica di un torneo breve: inizio il 27 maggio, conclusione il 10 giugno. Dirigente alla Pirelli, prima a Torino e poi a Milano, dove comincia con successo la carriera di giornalista del quotidiano “La Stampa“, poliglotta, ex calciatore in Svizzera, Francia e Inghilterra, tenente degli alpini nella Grande Guerra, il tenace, poliedrico e pragmatico piemontese Pozzo è ancora oggi l’unico allenatore capace di vincere due campionati del mondo, per giunta consecutivi.

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Calcio nella storia

Vittorio Pozzo guidò l’Italia pure alle Olimpiadi di Stoccolma 1912, Parigi 1924 e a Berlino 1936, dove vinse l’oro. L’altra perla di un trittico ineguagliabile così come la sua permanenza-record sulla panchina azzurra: 19 anni complessivi. Essendo stato un poderoso fascista, Eraldo Monzeglio è noto per essere quello che ha insegnato al Duce a giocare a tennis. Nel libro del giornalista del Corriere della Sera Alessandro Fulloni si racconta però (grazie a documenti e a testimonianze inedite) quel che non si sapeva del periodo 1943-1945. Monzeglio era un uomo perbene, salvò vite degli antifascisti grazie alla vicinanza con Mussolini, questuò suoi interventi risolutivi (e lui si adoperò). Rischiò in prima persona la sua stessa vita per aiutare partigiani catturati ed ebrei perseguitati. Tutto in circostanze rocambolesche. “L’Italia si impose all’Olimpiade di Berlino e nel 1938 andò a difendere il titolo mondiale in Francia, subito accolta da un clima di ostilità a causa delle vicende di politica internazionale che di lì a poco produrranno il secondo conflitto mondiale. Pozzo dovette rimpiazzare quasi tutti gli eroi di Roma e in formazione trovò posto anche il giovanissimo Silvio Piola, attaccante straordinario- spiega Nicola Cecere (Gazzetta.it)-. I superstiti del primo titolo erano Meazza e Ferrari, più Monzeglio, che giocò una partita. I nuovi assi sono Olivieri, Foni, Rava, Serantoni, Andreolo, Locatelli, Ferraris II, Colaussi, Biavati”. 

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Sport oltre la dittatura

Il c.t. Vittorio Pozzo aveva isolato il gruppo per due mesi di allenamenti. Arrivati in Francia, gli azzurri stentarono non poco nell’esordio contro i norvegesi e dopo questo match vinto 2-1, Meazza, a nome degli altri, chiese all’allenatore un colloquio franco e rispettoso: “Mister, sono due mesi che non vediamo una donna. Ci lascerebbe un pomeriggio di libertà?”. Pozzo ebbe l’umiltà di fare un piccolo passo indietro sulla strada del rigore assoluto e concesse ai giovanotti lo strappo richiesto. Contro la Francia padrona di casa, in maglia nera, sommersi dai fischi del pubblico, gli azzurri si imposero facilmente (3-1) e approdarono alla semifinale con il Brasile. I sudamericani, così sicuri di centrare la finale, si erano accaparrati tutti i posti dell’unico volo Marsiglia-Parigi. Pozzo lo seppe e andò nell’albergo del Brasile per convincere gli avversari a cedergli il viaggio in caso di eliminazione dall’Italia: “Impossibile che accada una cosa del genere”. Se ne andò stizzito e raccontò l’episodio nello spogliatoio. Beh, l’Italia si impose ben al di là del punteggio (2-1) e a Parigi ci arrivò in treno. Contro una formidabile Ungheria, rappresentante di un calcio danubiano orfano nell’occasione dell’Austria (la politica…), i ragazzi di Vittorio Pozzo giocarono una gara esemplare soprattutto nel secondo tempo e alzarono la coppa cantando “Giovinezza”. Il duce li ricompensò con 8.500 lire di premio, meno della metà di quanto ricevuto quattro anni prima a Roma. Ormai le italiche risorse economiche erano destinate alla guerra.
Giacomo Galeazzi: