Correre per vincere. Oppure no? Il dilemma olimpico torna a ripetersi ogni volta che il braciere torna ad accendersi illuminando le speranze di atleti che, per quattro anni, hanno fatto enormi sacrifici. Non solo per esserci ma anche, chiaramente, per tornare a casa con un premio concreto, sigillo finale al proprio lavoro. Poi, è altrettanto chiaro: tre medaglie a gara, su un range di atleti che spazia nell’ordine delle centinaia per ogni disciplina, significa accettare la possibilità di averci provato senza aver ottenuto. Il che, ovviamente, presuppone l’accettazione della sconfitta, magari sotto la giusta ottica. Quella dell’aver fatto del proprio meglio, senza per forza aver tradito le attese di qualcuno. In questo senso, una bella lezione è arrivata dalla giovanissima nuotatrice Benedetta Pilato, quarta nei 100 rana ma emozionante nella sua metabolizzazione della delusione, con una medaglia sfumata per un solo centesimo e una felicità lucida, aiutata dalla consapevolezza di aver dato quanto possibile. C’è chi questa forza riesce a trovarla nella propria passione. E anche chi, invece, si affida a un aiuto che, in tempi come questi, appare troppe volte distante dal mondo dello sport.
La fede sul tatami
Anche un’altra lezione è arrivata dalla squadra azzurra a Parigi. Odette Giuffrida, a argento ai Giochi, bronzo a quelli di Tokyo nel judo, puntava stavolta al riconoscimento più bello. Un oro per completare la collezione olimpica e che, sicuramente, sarebbe stato il giusto riconoscimento alla sua carriera. Nient’altro, invece, che una delusione storica, una beffa atroce incarnata dal volto di un direttore di gara, poco lucido al momento dell’assegnazione dei punti e che ha impedito a Odette di chiudere a medaglia la sua terza Olimpiade consecutiva. Un episodio superato con diplomazia e sportività, nonostante l’evidenza dell’errore. Magari grazie anche allo spirito della judoka azzurra, rafforzato, oltre che dagli anni di esperienza, anche dalla fede cattolica, che ha deciso di non nascondere. Anzi, di condividere piuttosto: “Prego tutti i giorni. Di solito a colazione apro una app sullo smartphone che mi permette di leggere un passo della Bibbia, la sera faccio la stessa cosa prima di dormire. Mi fa stare bene”. Con la sensazione di essere fortunata, vista la possibilità di sperimentare, attraverso il piano privilegiato dello sport internazionale, la gioia della condivisione e della fratellanza.
Occhi e cuore verso l’alto
Un’esperienza non dissimile da quella di altri atleti che, nello svolgimento della loro disciplina, hanno sperimentato l’essenza più genuina dell’essere credenti. Alcuni, la propria fede l’hanno professata in modo evidente già prima delle competizioni. Altri, hanno imparato ad abbracciarla successivamente, maturando una consapevolezza magari proprio attraverso le esperienze vissute come atleta. Un’esperienza simile l’ha vissuta Michael Phelps, ventitré ori olimpici, riavvicinatosi alla fede dopo aver attraversato un periodo di malessere psicologico. Altri atleti, invece, hanno vissuto il proprio credo in maniera naturale, rendendolo parte della propria vita, sportiva e non. Un atteggiamento di coraggio che, se in passato appariva naturale, oggi appare quasi di rottura, di coraggio rispetto a un momento storico in cui persino la fede, qualunque essa sia, finisce per doversi divincolare dalla presa del relativismo.