Tutto porta a Città del Messico. Anzi, riporta a Città del Messico. Cinquant’anni, una decina di giorni fa, dalla serata magica di Italia-Germania, monumento immortale della storia del calcio, italiano e non solo. Addirittura la Partita del Secolo, quella che fece innamorare una Nazione, che diede il là al pallone come sport universale, in grado di coinvolgere ed emozionare come forse nessun altro. Sportivamente parlando fu un biennio irripetibile per il Messico: Olimpiadi e Mondiali di calcio in appena 24 mesi, festa e bellezza, episodi leggendari e altri destinati ad attraversare, in altri modi, i ricordi delle generazioni che sarebbero venute. Perché non è stato solo il ’70 a essere impresso sulla pietra, né solo l’immortale match fra la compagine azzurra e quella tedesca. Non era il tempio dell’Azteca, ma anche l’Olimpico universitario della capitale messicana finì al centro della storia. L’anno era il 1968, il contesto la finale olimpica dei 200 metri. Il pugno guantato di nero, quello di Tommie Smith e di John Carlos. Un gesto di protesta pronto a entrare nella storia.
Un pugno per il Black Power
Tutto torna lì, all’ottobre di Città del Messico: Martin Luther King era stato ucciso sei mesi prima, Malcolm X da quattro anni, ma l’ondata di protesta della comunità afroamericana era tutta lì, nel pugno alzato dei due atleti medaglia d’oro e di bronzo (con annesso record olimpico per Smith). Fece scalpore per lo scenario, formale e altro da qualsiasi forma di influenza politica come quello olimpico, e di fatto chiuse la carriera ad alti livelli dei due atleti, espulsi da quell’Olimpiade e minacciati in patria per aver esibito davanti agli occhi del mondo un aperto gesto di sostegno all’Olympic Project for Human Rights e, più precisamente, a favore del movimento delle Black Panthers, del Black Power e di tutti quei movimenti sorti durante gli anni delle grandi marce dei pastori afroamericani, ma che di quegli ideali di non violenza e rivendicazione pacifica dei propri diritti avevano iniziato a fare a meno. Smith e Carlos si fecero in qualche modo interpreti dello slogan di Stokely Carmichael, violando per la prima volta un’etica olimpica che, prima di allora, aveva visto solo nelle gesta sportive di Jesse Owens la migliore risposta ai pregiudizi razziali.
Testimone da cinquant’anni
Smith e Carlos non si accontentarono di portarsi a casa le medaglie. La loro fu una protesta contro le violenze subite dai neri d’America ma, platealmente, un sostegno aperto a qualcosa di più di un movimento antisegregazionista. Un gesto che non piacque al pubblico di Città del Messico ma che si prese la storia dei Giochi olimpici e, in qualche modo, della lotta per i diritti umani. Tanto che oggi, nei giorni della nuova sollevazione della comunità afroamericana a seguito della morte di George Floyd, è lo stesso Tommie Smith a ripercorrere quell’ideale filo rosso fra il suo pugno guantato e gli atleti inginocchiati, anche in Serie A, per rendere omaggio al 46 ucciso durante un arresto a Minneapolis e, implicitamente, per chiedere che sia fatta giustizia. Non solo a Floyd ma all’intera comunità afroamericana che, nonostante i cinquantadue anni passati dalla protesta dell’Olimpico universitario, scende ancora in strada per rivendicare i propri diritti. Quelli essenziali e vitali per una vera uguaglianza fra le genti: “Provo ancora quei sentimenti – ha raccontato Smith al New York Times -, ed è terribile che questi sentimenti che ho provato adesso si stiano manifestando. Ci sono stati atleti che si sono messi in ginocchio, poi dei calciatori che si sono messi in ginocchio, e poi ci sono stati omicidi e poi dei morti. Mi riporta tutto al podio di Città del Messico perché quelle erano le stesse sensazioni che avevo allora”.
Un messaggio, una protesta
Da Smith a N’Koulou e Lukaku, passando per Cassius Clay e per tutti gli atleti della Nfl inginocchiatisi durante l’inno nazionale in protesta contro le politiche anti-migranti del presidente Trump: un filo rosso che corre dalle Black Panther al Black Lives Matter, dagli anni delle marce della pace e dello scandalo per un gesto sul podio olimpico, ai continui messaggi “no to racism” rivolti al pubblico affinché sport e discriminazione divenissero contesti del tutto scevri da influenze reciproche. Con le diverse declinazioni storiche, non sembrano poi trascorsi così tanti anni da quel 1968, funestato dall’uccisione di King e dal risentimento crescente della comunità afroamericane, prive di una guida in grado di convogliarne le rimostranze su un sentiero di rispetto e pacifica protesta, lasciando il posto alla rabbia. E lo storico gesto di Città del Messico il suo messaggio lo porta ancora con sé. Cinquantadue anni che tornano, prepotentemente, a materializzarsi nell’America di oggi, con gli atleti che incarnarono la protesta a rendersi testimoni di sentimenti del tutto simili. Oggi non è il 1968 ma quel periodo non sembra poi così lontano. Le stesse rivendicazioni, la stessa rabbia, le stesse variabili incontrollabili. Che oggi, però, arrivano a produrre sentimenti iconoclasti del tutto altri dalla rivendicazioni dei diritti fondamentali del genere umano. E lo sport che torna teatro di gesti di protesta, forse non più così clamorosi ma, per chi li visse cinquant’anni fa, di una carica del tutto simile. Qualcosa su cui vale la pena riflettere.