Sergio Manna,
pastore valdese e cappellano clinico, è impegnato in prima linea come volontario del 118 nello
tsunami sanitario e sociale della pandemia.
“L’emergenza sanitaria ci stimola a diventare creativi. Per manifestare la nostra vicinanza e solidarietà a chi ne ha bisogno”, spiega a Interris.it.
La reazione alla pandemia
“Una delle cose più frustranti che ho vissuto da pastore durante la prima ondata della pandemia è stato il fatto di celebrare dei funerali senza poter stringere la mano. O dare un abbraccio ai familiari dei defunti- racconta a Interris.it il pastore valdese e cappellano clinico. “Un abbraccio comunica in modo percepibile vicinanza, partecipazione, solidarietà“, aggiunge. Dovervi rinunciare “è stato difficile”. Ma era necessario farlo. “Perché di questi tempi, paradossalmente, il non abbracciare è un atto di cura”. L’importante, chiarisce Sergio Manna, è comprendere una cosa. E cioè che il distanziamento sociale (“brutto termine al quale avrei preferito ‘distanziamento fisico’”) non è un invito a chiudersi in se stessi. “Non si può essere vicini fisicamente? Si può cercare di esserlo con una telefonata. Una mail. Un messaggio in chat. O utilizzando le varie piattaforme web che offrono la possibilità anche di vedersi, perfino in gruppo. E per le cause che ci stanno a cuore abbiamo sempre la possibilità di sostenerle economicamente. Anche quando siamo confinati a casa”.
La tempesta della pandemia suscita più solidarietà o chiusura in se stessi?
“Non credo si possa generalizzare. Credo che le persone capaci di empatia non cambino il loro modo di essere a causa della pandemia e, allo stesso tempo, dubito che le persone affette da egoismo diventino solidali in tempi critici come questo che stiamo vivendo. Indubbiamente il necessario invito a rimanere a casa nel periodo del lockdown limita le possibilità di esprimere la solidarietà mediante la vicinanza fisica. L’importante è non chiudersi in se stessi. Il riformatore Martin Lutero parlava di ‘homo incurvatus in se’ (uomo curvato su se stesso) per definire l’opposto della solidarietà, cioè quella condizione nella quale l’essere umano è talmente curvato su se stesso da vedere soltanto la propria pancia, i propri bisogni e nient’altro che quelli. E questo è il peccato”.
In tempo di pandemia, come cambia il valore sociale della solidarietà?
“In tempi di pandemia, come in ogni situazione di emergenza, il valore sociale della solidarietà diventa ancora più prezioso, dal momento che ogni situazione critica suscita, quasi fisiologicamente, paure ataviche: il timore di non avere abbastanza per resistere (basti pensare alla presa d’assalto dei supermercati durante il primo lockdown), il sospetto verso il prossimo, soprattutto l’estraneo o lo straniero (c’è chi per bieche ragioni politiche approfitta della situazione per indicare negli immigrati e rifugiati dei potenziali untori). In tempi come questi diventa ancora più prezioso il servizio di quanti si dedicano a svolgere attività di volontariato per lenire le sofferenze e i disagi di quanti vivono in situazioni di povertà, solitudine, malattia, degrado e di marginalità”.
Può farci un esempio?
“Accanto a forme di solidarietà già strutturate vediamo nascere anche belle iniziative spontanee. Penso alle persone che andando a fare la spesa la fanno anche ai loro vicini di casa soli, anziani o malati che, impossibilitati a uscire, non hanno nessuno che si occupi di loro. Ma penso anche a iniziative come ‘la spesa sospesa’, evoluzione del famoso ‘caffè sospeso’ tipico di Napoli, che è la mia città”.
A cosa si riferisce?
“Da tempo immemorabile esiste a Napoli l’usanza di pagare al bar un caffè in più rispetto a quelli che si consumano, affinché la persona indigente che non può permettersi di pagarsi un caffè al bar, possa invece recarvisi tranquillamente per usufruire di quel ‘caffè sospeso’ pagatogli da uno sconosciuto. Adesso, in tempo di pandemia, con la perdita di molti posti di lavoro, qualcuno ha pensato di inventarsi ‘la spesa sospesa’, che funziona più o meno nello stesso modo, e consente di fare del bene a persone sconosciute. Mi sembra una delle forme più belle e creative in cui una situazione di crisi può incrementare il valore sociale della solidarietà.”
Chi soffre maggiormente per l’emergenza Covid?
“Sono molte le categorie sociali che soffrono maggiormente per l’emergenza Covid. Oltre ai più poveri, agli emarginati e ai senza fissa dimora, cui abbiamo accennato prima, ci sono tutte le persone malate (anche gravemente) che a causa dell’emergenza sanitaria scaturita dal Covid vedono prolungarsi i tempi per poter fare delle visite e degli esami diagnostici importanti o, in certi casi, per sottoporsi a delle cure dalle quali, in buona parte, dipende la qualità della propria vita se non addirittura la sopravvivenza. Poi ci sono le persone anziane e sole, che con il lockdown vedono aumentare il proprio isolamento”.Poi?
“Ci sono anche tutte quelle persone che hanno perso il lavoro o che hanno dovuto chiudere i propri negozi con conseguenze economiche ed esistenziali catastrofiche. Infine, ma non da ultime, ci sono tutte le operatrici e gli operatori sanitari sottoposti a turni massacranti e in numero inferiore a quelli che servirebbero per fronteggiare la situazione. Il rischio di burn out in questi casi è davvero elevato e non andrebbe trascurato”.Il Vangelo parla dei lebbrosi. C’è il rischio che la pandemia accresca l’esclusione sociale?
“”Il rischio è molto concreto, purtroppo. Abbiamo già visto, proprio in questi giorni, come infermieri e medici, acclamati come eroi durante la prima ondata della pandemia vengano ora, non di rado, trattati come untori. E’ di questi giorni la notizia dell’infermiera discriminata dalla parrucchiera e invitata ad uscire dal negozio proprio per la professione che svolgeva e che veniva percepita come una minaccia alla salute degli esercenti e delle altre clienti. Non credo si tratti di un caso isolato e temo le potenzialità di una psicosi di massa”.
Cioè?
“Accanto ai sanitari, ovviamente, la categoria più facilmente percepita come potenziale untrice è quella degli stranieri, soprattutto gli immigrati e i rifugiati. E dire che nel gruppo di persone che hanno seguito un corso per diventare volontari della croce verde inservizio presso il 118 ben 4 erano rifugiati arrivati in Italia grazie ai corridoi umanitari organizzati dalla Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, dalla Tavola Valdese e dalla Comunità di Sant’Egidio. Si tratta di due africani e due siriani. Un bel segno di speranza secondo me, perché se da un lato c’è chi cerca di escludere dall’altra parte ci sono i potenziali esclusi che, invece, cercano le forme e i modi per vivere concretamente la solidarietà verso questo Paese che li ha accolti”.