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La sofferenza e la cura dell’altro diventano opere d’arte

L'intervista di Interris.it a Raffaella Gay di Vidas, che ha coinvolto gli studenti dell'accademia meneghina nel progetto "Riconoscersi. Senza l’altro io non sono”

La bellezza e l’arte sono dei valori che possono offrire un grande sollievo per l’anima e diventano un incentivo a riflettere su alcuni temi importanti della nostra esistenza. L’arte infatti, può toccare ogni sfera della vita dell’uomo, compresi quelli della sofferenza e della vulnerabilità. La cultura diventa per molti un ponte grazie al quale arrivare alle realtà più disagiate della nostra società e può fornire un punto di vista nuovo con cui scrutare il mondo che ci circonda.

L’intervista

Raffaella Gay, responsabile comunicazione e progetti culturali di Vidas, ha spiegato ad Interris.it il progetto “Riconoscersi. Senza l’altro io non sono” rivolto a tutti gli studenti dell’Accademia di Brera. L’iniziativa è stata pensata per stimolare la sensibilità dei più giovani verso l’ascolto e il rispetto per l’altro, temi da sempre al centro dell’operato di Vidas, ente no profit che da più di quarant’anni offre assistenza ai malati inguaribili e alle loro famiglie.

Raffaella, che valore hanno per Vidas queste iniziative culturali?

“Si tratta di un potente mezzo di comunicazione che noi costantemente usiamo perché siamo conviti che tramite la cultura noi possiamo raggiungere moltissime persone, da quelle più giovani agli adulti. Queste iniziative ci permettono di parlare della sfera del prendersi cura della persona sofferente, che è uno dei temi fondamentali del nostro operato di tutti i giorni”.

Come riuscite a coinvolgere i ragazzi?

“Nel caso degli studenti proponiamo nelle nostre strutture attività pcto, prima conosciute alternanza scuola-lavoro. Si tratta di iniziative forti in cui questi giovani possono toccare con mano la sofferenza degli ospiti e possono dedicarsi all’altro, mettendolo al centro delle proprie azioni la tutela del valore dell’umanità, che ognuno di noi possiede e che dobbiamo sempre rispettare e tutelare”.

Quanto è importante avvicinare i giovani a queste tematiche?

“Noi crediamo sia sempre stato fondamentale, ma questa esigenza ora è ancora più urgente. Negli ultimi anni infatti, si è perso il valore della relazione, oramai relegata dietro uno schermo ed a un like nei social. Viene meno invece la capacità di riconoscere la sofferenza della persona che si incontra, di accoglierla e la liberà di relazionarsi con questa. Ad oggi i giovani sono rappresentati come egoisti e proiettati solo verso se stessi, noi però possiamo garantire che non è così. Ogni giorno infatti, veniamo in contatto con delle persone, a cui se viene data la possibilità di mettersi in gioco, sanno dare voce ai propri sentimenti e dimostrano di volersi mettere a servizio dell’altro con la massima apertura”.

L’Accademia di Brera ha accettato di partecipare al vostro progetto. Vi hanno sorpreso le opere presentate?

“Si tratta di una realtà culturale importante della città di Milano, grazie alla quale abbiamo voluto inviare il messaggio che l’arte è un dono che può dare sollievo a chi soffre. I ragazzi si sono misurati su temi quali quello della vulnerabilità, della cura dell’altro e della separazione. Le opere presentate sono state cinquantadue e sicuramente, oltre alla fantasia di questi giovani futuri artisti, siamo rimasti sorpresi dall’attenzione e dalla sensibilità dimostrate verso queste tematiche, che si traducono in sguardi potentissimi”.

Ci fa qualche esempio?

“Ricordo per esempio un’opera che raffigurava un angolo della doccia in cui erano riposti due barattoli, rispettivamente con la dicitura bagno schiuma e shampoo. Questo messaggio era riferito a una persona che non ha più la capacità di riconoscere gli strumenti della sua cura quotidiana. Una delle opere vincitrici invece, è stata realizzata con sacchetti di carta per il pane, intrecciati tra di loro in un tessuto speciale che evoca la trama quotidiana di abitudini condivise. Si tratta di messaggi importanti che ci dicono che i giovani non sono per nulla indifferenti all’altro e che invece, forse siamo proprio noi a non credere in loro”.

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